DAY 45 – LAST DAY: ULAANBAATAR!!

DRIIIIIN…Quarantacinquesima sveglia per i Goodfellas!!
Questa volta suona dalla Chuka’s guest house, l’appartamento da noi colonizzato nel centro di UlaanBaatar. Tra tutti, questo è stato un risveglio particolarmente sentito e doloroso: non solo abbiamo le super riposanti due ore di sonno, ma anche la consapevolezza che oggi è il Grande Giorno, il giorno del distacco da Ariostone. Difatti, raramente si sono sentite così poche chiacchiere e battute a colazione (a parte il giorno che dovevamo trovare un meccanico per aggiustare il sottoscocca). Abbiamo ancora mezza giornata per goderci a pieno il nostro amato pulmino e in queste ore l’idea è di visitare il Book House Project di Go Help, situato in un villaggio a circa un’ora dalla capitale. Qui, in seguito alla chiusura di una miniera nelle vicinanze, vi è uno dei più alti tassi di disoccupazione, le condizioni igienico-sanitarie sono a dir poco precarie e vi sono numerosi bambini affetti da malattie congenite. Go Help ha deciso di dare una mano costruendo una struttura destinata alla raccolta libri, dove i bimbi possono ritrovarsi sia per utilizzare i libri donati, sia per divertirsi giocando. Figuratevi che sono riusciti a piazzare all’interno della sala anche una postazione internet!
L’appuntamento è alle 8:30 con Javzaa (la volontaria di Go Help) che, ovviamente, deve attendere il nostro arrivo per almeno 10 minuti: siamo ritardatari coerenti fino alla fine noi! Javzaa ci guida fino al villaggio in periferia e, una volta sul luogo, entriamo nella Book House, che consiste in due stanze accorpate decorate con libri di ogni tipo posti su vari scaffali e popolate da tutti i bambini della zona.

Sin dal nostro arrivo, i bambini riescono a contagiarci con la loro allegria e voglia di giocare; ci ritroviamo così a calciare palloncini, cercare di comunicare con goffi gesti e a scattare milioni di foto per immortalare questo magnifico momento.

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Per capire di cosa stiamo parlando date un’occhiata a QUESTO video!!

Ed è in questo clima gioioso che Lucia e Cristiano con il loro impeccabile spagnolo fanno la conoscenza di Alvaro Saiz Ruiz, un ragazzo basco di 32 anni, che dopo aver intrapreso l’avventura del Mongolia Charity Rally (durata per lui 3 mesi), ha deciso di lasciare tutto ciò che aveva in Spagna per trasferirsi in questa comunità, aiutando la gente del posto a vivere meglio. Visitiamo così la sua umile abitazione, le docce pubbliche alle quali sta lavorando e il prototipo di maxigher a impatto zero costruita con sacchi d’argilla che, con l’aiuto di alcuni operai volontari, sta tirando su per una famiglia locale di otto persone in difficoltà. Questo basta a convincerci che lui è l’uomo giusto: decidiamo di donargli tutto ciò che è rimasto nel van: scatola degli attrezzi, tavolini, sgabelli, fornelletto,cuscini, coperte…tutto! Siamo sicuri che ne farà buon uso. Un seguito infinto di saluti e abbracci ci riporta coi piedi su Ariosto, felici e soddisfatti per aver contribuito ad una nobile causa.

Il viaggio è breve ma nulla ci impedisce di fermarci per una sosta di fronte al cartello d’ingresso di UlaanBaatar: come si suol dire, ci stava attuttofoco!

Per saziare le nostre pance brontolone, dietro consiglio di Javzaa ci dirigiamo verso un negozio di ramen, chiamato Oishii Ramen (“delizioso ramen” tradotto dal giapponese, e in effetti non delude le aspettative!). Sembra esser il suggerimento perfetto, dato che proprio a lato del locale troviamo un’area destinata al lavaggio automobili. Lasciamo Ariosto a fare il bagnetto, mentre ci dedichiamo ad un delizioso pranzo durante il quale ci viene la brillante idea di visitare un negozio di gioielli tipici mongoli alla ricerca di souvenir dell’ultimo momento; promettiamo di tornare in tempo per le 16:30, ora di consegna ufficiale dell’amato van, ma ovviamente ci perdiamo nel negozio, e Javzaa, oramai affiliata Goodfellas, posticipa ulteriormente l’incontro con i volontari dell’ufficio per offrirci caffè e dolcetto.

Una corsa verso l’ufficio, qualche scusa arrabattata e, in men che non si dica, ci ritroviamo ad abbracciare il nostro Ariosto per un ultimo saluto. Ma prima, ahinoi, un’ultima prova da superare: il test con il meccanico!! Se questo ritenesse il mezzo in buone condizioni, avremmo diritto a riavere tutta la caparra, in caso contratio l’associazione può decidere di trattenere il 20% degli oltre 900 euro da noi versati come garanzia. Dopo una rapida occhiata e un test generale, il Signor Meccanico non è molto convinto delle sospensioni, effettivamente un pò provate dal lungo viaggio. È qui che grazie al nostro savoir-faire, qualche occhiolino e un k-way del Milan della taglia giusta riusciamo a convincere anche lui: l’intera caparra è nostra! Salti, foto e lacrime ci fanno congedare dal nostro amato pulmino e tristi, ma pienamente soddisfatti, lo vediamo allontanarsi all’orizzonte e ci dirigiamo verso casa. Addio Ariosto, sei stato un fiero compagno di viaggio!!

All’unanimità decidiamo che l’ultima cena mongola deve esser una cena di tutto rispetto, quindi ci dirigiamo convinti all’ Altai Barbecue, un “eat as much as you like” bello grande, kitsch al punto giusto e con un ottimo assortimento di carne: dal montone al cavallo, passando per il maiale, piuttosto raro da queste parti. Siamo famelici e divoriamo ogni cosa esposta sul bancone: anche questo ristorantino non ci delude. Con nostra grandissima sorpresa incontriamo anche le ragazze irlandesi del team del Mongol Rally, incrociate qualche giorno prima lungo la strada: sembra scontato, ma con loro non possono mancare un paio di boccali di birra insieme ed un’ultima foto per sigillare questo incontro.

Torniamo a casa e crolliamo distrutti nei nostri letti. Lucia, Daniele, Laura e Federico sonnecchiano due ore, prima di prendere il taxi per l’aeroporto. Nessun addio doloroso, solo un arrivederci e un grande in bocca al lupo ai tre fellas che continueranno il lungo viaggio: Marco e Jacopo fino a Shanghaii e Cristiano fino in Indonesia.

Abbiamo capito che essere un Goodfellas vuol dire appartenere ad un gruppo solido ed avventuriero: e noi lo siamo stato. Lo spirito Goodfellas fa parte di colui che è pronto a spingersi oltre le barriere geografiche, politiche e culturali per assaporare a pieno una cultura indigena. È qualcosa che non ti abbandona così facilmente. Abbiamo scoperto il fascino di ballare dove la musica è proibita, il sapore di un pic-nic anche a fianco di un cratere, il frizzare della vodka se accompagnata da uno spiedino di carne, la soddisfazione di non cedere a ricatti di poliziotti corrotti, il piacere di vincere una gara di lancio al sasso in un lago siberiano pieno di pescatori, e la bellezza della natura mongola incontaminata. Siamo certi che molto altro ci attende, ma per ora siamo pronti ad affrontare il ritorno e chissà, forse un altro rally ci aspetta…

DAY 44 – ULAANBAATAR

La sveglia ci butta giù dal letto, il tempo di una rinfrescata ed un caffè River e i Goodfellas sono finalmente pronti per la Finish Line!
Guidiamo Ariosto nella vicina sede di Go Help e saliamo negli uffici per finire di firmare i documenti che attestano l’avvenuta donazione del mitico furgone che ci ha scarrozzati in giro per mezzomondo tra mille avventure. Tra un biscottino e un succo gentilmente offerti dallo staff di volontari di Go Help facciamo la conoscenza del team arrivato subito prima di noi con il loro pick up, gli “On The Road Again”, un gruppo di 3 signori australiani molto simpatici con cui ci confrontiamo a suon di sketch avvenuti durante questi lunghi 45 giorni in viaggio.

Dopo aver messo nero su bianco sul grande poster dei partecipanti al Mongolia Charity Rally 2013 che Il “The Goodfellas Team” è arrivato ufficialmente 22esimo alla meta, firmiamo le carte e saliamo nuovamente sul furgone con Cristiano alla guida in direzione finish line, che a quanto pare è qualche chilometro più in là, per il tragitto veniamo accompagnati da Baljka, una delle volontarie di Go help, che nonostante la carica eccezionale dei Fellaz stenta ad ambientarsi e anzi, sembra piuttosto presa male. Per farle cambiare atteggiamento decidiamo appena partiti di intonare quello che è diventato il nostro inno, ovvero l'”Inno del Corpo Sciolto”, del mitico Roberto Benigni, che ci ha accompagnato per buona parte del viaggio!  Jacopo monta la Gopro e lo spettacolo ha inizio, tutti quanti iniziano ad intonare i versi mentre la nostra passeggera non sembra sciogliersi, anzi, si ritrae ancor di più verso lo sportello come impaurita dall’entusiasmo dei sette fellaz in dirittura d’arrivo.

                                                                                                          VEDERE PER CREDERE!!

Ma proprio nel momento di massimo entusiasmo Marco e Laura vedono qualcosa staccarsi dal furgone e finire nel mezzo del traffico di Ulaanbaatar: è la tenda di Massi, che, nella fretta dell’ultima carica del furgone evidentemente non è stata legata a modo ma soltanto appoggiata e, alla prima occasione propizia ha deciso di darsela a gambe nel traffico della capitale. Marco appena si accorge del fatto apre il portellone e si lancia alla ricerca della sfortunata tenda, ma incredibilmente non la trova, chissà che fine avrà fatto? Di ritorno al pulmino si improvvisa vigile urbano e permette ai Fellas di districarsi dalla coda per sprintare atuttofoco verso la tanto agognata Finish Line. L’arrivo non è altro che il parcheggio privato di un ristorante convenzionato con la ONG Go Help ma ai Goodfellas basta per esplodere in salti, urla e balli matti, l’entusiasmo è tale che il vicinato inizialmente si affaccia titubante e poi comincia a rispondere ai cori intonati dai sette viaggiatori italici. Il passo successivo è una serie infinita di foto in salto e con Ariosto finchè non ci viene consegnato il premio, una statuetta metallica con piedistallo in pietra tanto trashona quanto pesante di un paffutissimo Gengis Khan che sventola una simpatica bandierina recante il logo del Mongolia Charity Rally.

Veniamo poi invitati all’interno del ristorante assieme all’altro team per il birrino della vittoria. Brindiamo e degustiamo la bionda mentre cerchiamo di riassumere il nostro viaggio attraverso un illustrazione sullo “Sketchbook dei vincitori”. Jack inizia a disegnare e a ruota ognuno inserisce altri disegni e frasi sulla tavola che dopo un paio d’ore di lavoro è davvero una figata.

Fatto questo siamo “liberi” di farci un giro per Ulaanbaatar, ma gli insaziabili stomaci iniziano a gorgogliare, e la necessità di wifi ci spingono a tornare un’altra volta alla corte del colonnello Sanders, il mago del pollo fritto. Tra una skypata e un’aletta di pollo piccante facciamo una bella merenda/cena ricca di colesterolo per fare il pieno di energie che serviranno per provare a scrivere almeno un paio di giorni di blog a testa, ovvero quelli che ci mancano per rimettersi in pari. Infatti tornati a casa Goodfellas (l’ostello/appartamento da noi colonizzato) ognuno si prende un giorno ed inizia a scrivere stravaccato sul divano con una tazza di caffè nero o tè. Ma la voglia di cazzeggiare è tanta, e tra un: “ti ricordi di quella volta che..” e uno sguardo alle foto il tempo vola. Tutto bene fin che non ci accorgiamo che sono le 3 e ancora nessuno ha finito il suo lavoro di blogger, decidiamo quindi di mettersi davvero sotto con e nonostante la stanchezza latente e gli sbadigli che si inanellano l’uno sull’altro riusciamo a rimettersi in pari facendo la notte in bianco come ai vecchi tempi (universitari)…Sono le 5 e decisamente non ne possiamo più, soddisfatti dell’operato ce ne andiamo a letto per una “lunga” dormita di due ore, domani sarà una giornata intensa…domani sarà ufficialmente il nostro Ultimo giorno di viaggio!!

DAY 43 – FINALLY…ULAANBAATAR!!

Ci svegliamo un pò stonati dalla notte brava appena passata, e per la prima volta qui in Mongolia ad accoglierci c’è un cielo plumbeo, carico di pioggia, a sottolineare la tristezza per l’ultimo giorno di viaggio con Ariosto.
Nonostante questo, gli animi sono allegri, ieri ci siamo divertiti e siamo comunque elettrizzati all’idea di raggiungere finalmente la meta: oggi ci aspetta ULAANBAATAR!!

Non abbiamo fretta, non vogliamo averne, e siamo talmente presi bene che tra un risveglio e l’altro i più mattinieri si inventano una supercolazione: patatine e funghi fritti!! Parte quindi un time lapse lungo 2 ore in cui ci dilettiamo a friggere, preparare l’accoppiata vincente chai & narghilè, chiudere le tende e i sacchi a pelo, legare ben stretta la tenda di Massimo ormai distrutta, il tutto accompagnato da un Daniele ancora euforico che fa la lotta con Jacopo!


E’ una buona giornata, intorno alle 11.30 riusciamo a caricare Ariostone per l’ultima volta e partiamo alla volta della Capitale mongola…la strada è stranamente ottima, e in men che non si dica arriviamo finalmente a destinazione!
Dopo una settimana passata nel bel mezzo del nulla, con qualche incontro sporadico con la gente del posto, l’arrivo in città è un pò traumatico, da subito ci ritroviamo bloccati nel traffico intenso di Ulaanbaatar, che si rivela essere una città grigia, caotica e un pò triste…ma non ci buttiamo giù d’animo, anche perchè abbiamo un’unica missione adesso: no, non è quella di contattare Go Help per dire loro che siamo arrivati, quello può aspettare, noi Goodfellas dobbiamo mangiare, e quando diciamo mangiare intendiamo un bell’hamburger ignorante in un qualche fast food!!


Storditi dalla consapevolezza di avercela fatta, di essere arrivati fin qua senza intoppi dopo un’avventura del genere, parcheggiamo Ariosto e ci facciamo una passeggiata in centro in cerca dell’agognato panino. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto troviamo un piccolo paninaro che promette dei chheseburger niente male e ci fiondiamo a ordinarne otto: potete immaginare l’orrore quando al primo morso Laura percepisce un retrogusto familiare, che non ci sta…montone!! No, non possiamo accettarlo, va bene adeguarsi alla cucina locale, ma questo è troppo! Prima che l’omino finisca di preparare gli altri panini, lo fermiamo dicendo che siamo apposto così, e torniamo alla ricerca, rassegnati. A un attraversamento pedonale la svolta: una ragazza ci indica un KFC gigante a 200 metri da noi, la ringraziamo come se ci avesse indicato un’oasi in mezzo al deserto e corriamo in quella direzione.
Nel tragitto per il pollo fritto scorgiamo una manifestazione di calcetto in una sorta di gabbia, e ovviamente i Goodfellas appassionati non possono fare a meno di curiosare, e chi ti scorgono tra i vip che assistono alla manifestazione? niente popò di meno che Fabio Cannavaro!! Una foto è d’obbligo, con Daniele che fa da ambasciatore e va a introdurre il gruppo al celeberrimo capitano, riusciamo a passare per immortalare con la Gopro questo incontro totalmente inaspettato!!


Dopo aver finalmente placato la fame e scroccato abbondantemente la wifi del KFC per avvertire amici e familiari della riuscita dell’impresa, prendiamo appuntamento per le 17 con Javzaa, volontaria di GoHelp incaricata di accompagnarci all’ufficio dell’associazione e di aiutarci nelle varie pratiche da sbrigare per completare la nostra missione.
Javzaa è una ragazza carinissima, parla benissimo inglese, e purtroppo per lei capisce subito con chi ha a che fare, la tratteniamo, nonstante la pioggia e il freddo, almeno un’ora nella grande piazza della città, dove la rincoglioniamo di foto in salto e foto “abbracciati” al gigantesco Gengis Khan che si trova sulla scalinata a uno dei lati della piazza. Siamo troppo euforici, nessuno può dirci che è ora di andare, SIAMO A ULAANBAATAR!!


Si è fatto tardi, e dato che possiamo rimandare al mattino seguente l’incontro ufficiale all’ufficio di Go Help, Javzaa ci propone di andare a riposarci nella vicina Chuka’s Guest House, e noi accettiamo ben volentieri!
Il posto è perfetto, economico,pulito, con due bagni, cucina, salottino, e soprattutto è tutto per noi!!
Invadiamo letteralmente la casetta, anche perchè è giunto il momento di svuotare Ariosto…è incredibile quante cose siamo riusciti ad accumulare là dentro dopo 43 giorni di viaggio !!


Riusciamo a dare una parvenza di ordine solo dopo 2 ore intense di lavoro, e arrivati alle 23 abbiamo solo voglia di andare a dormire, esausti per l’improvviso crollo dell’adrenalina che ci ha sostenuto per tutta la giornata.
Ci prepariamo una pasta al pesto veloce e ci rilassiamo in salotto, munito di mega tv a schermo piatto che ci permette di vedere tutti i video fatti durante il viaggio, e tra le risate e i ricordi non possiamo fare a meno di pensare che nel nostro piccolo abbiamo compiuto un’impresa, e la cosa più bella è che ce la siamo proprio goduta appieno, come andava fatto!!
Domani è un altro giorno, domani ci aspettano l’uffico di GoHelp per i paperworks e la FINISH LINE, e anche se l’idea da una parte ci rattrista un pò, noi siamo pronti, come sempre…I Goodfellas ce l’hanno fatta!!

DAY 42 – ON THE WAY TO ULAANBAATAR

Si preme il tasto “snooze” della sveglia più volte prima di sbucare fuori dai nostri sacchi a pelo come farfalle dal bozzolo: siamo un giorno in anticipo ed è l’ultima tappa prima di UlaanBaatar, la meta finale. Anche la colazione si dilunga più del previsto ma i nostri animi e le nostre coscienze sono pulite e rincuorate. Ormai, a meno di eventi imprevedibili, ce l’abbiamo davvero fatta, e sul serio! Tutte le mattine precedenti ci assicurano un livello di esperienza tale da agire quasi mnemonicamente e l’accampamento si smonta “da solo”, il tutto accompagnato da un simpatico incontro con un bambino a cavallo a cui non tardiamo a far indossare fieramente una maglietta de “Gli Occhi della Speranza”.

Laura siede nel sedile anteriore di Ariosto e lo dirige con cura, scollinando a più non posso, verso la capitale mongola, a questo punto davvero vicina. L’entusiasmo generale si smorza un attimo quando Jack annuncia di avere perso il cellulare e ci costringe a fare retromarcia. Torniamo così indietro di un paio di Km e ci inoltriamo nuovamente nella steppa, laddove abbiamo piantato le tende la sera prima. Non ci vuole molto e il prezioso iPhone di Jacopino viene ritrovato tra i ciuffi d’erba e i resti di sterco di cammello bruciato! Riprendendo il cammino, scorgiamo un enorme branco di aquile, chi ne conta 50, chi 100 e chi afferma solamente “goodfellaaasss”. Gasatissimi da tutto ciò, Daniele, Marco, Cristiano e Jack fanno accostare il mezzo e scattano giù con l’intento di correre loro incontro, cercando di filmare tale epica impresa. Le aquile sono già tutte in volo quando i 4 eroi si accorgono del motivo della riunione così affollata di piumate: una carcassa di cavallo giace a terra e le aquile stavano banchettando allegramente prima dell’avvento dei Fellaz!

Affaticati, i 4 risalgono su Ariostone e tra, immancabili ondine e pezzi di asfalto ben auguranti, sopraggiunge ora di pranzo. Il sole pomeridiano è oggi inaspettatamente funzionale e vogliamo perciò concederci un pic-nic all’ombra: un problema non da poco, considerando che in Mongolia non esistono alberi! In lontananza scorgiamo una gher con accanto un pezzo di tettoia in disuso che può fare proprio il caso nostro.

Appena parcheggiamo due splendidi pastori mongoli ci accolgono scodinzolando come Daniele quando vede Lucia e veniamo poco dopo raggiunti anche dai rispettivi padroni, che ci concedono il nulla osta per pranzare nel loro “cortile”. Il pasto è, ancora una volta, a base di insalata di legumi fredda, pane del giorno prima e purèe. A questo punto siamo un po’ tutti disgustati dai leguminacei, ma i cani pare proprio che apprezzino con entusiasmo qualsiasi cosa sia data loro, purèe compreso. I maschi, dopo la classica svuotata intestinale post-pranzo, sfoggiano le loro skills col nuovo pallone, mentre le ragazze stanno ovviamente lavando i piatti, facendo la biancheria, mettendo a posto, insomma i loro compiti. Il Signore però non ci ha fatto tutti uguali e soprattutto non ha donato a ciascuno di noi lo stesso livello di talento calcistico: infatti, mentre Marco e Fede se la cavano egregiamente, Jack sbaglia un passaggio e la nuova palla finisce sulla tettoia, a 6/7 metri di altezza. Qualsiasi tentativo di recuperare il preziosissimo passatempo è invano e due ore dopo riprendiamo il tragitto, tutti delusi e affranti dalla recente perdita (a parte Laura e Lucia che ne godono anche se lo danno poco a vedere). La depressione si affievolisce mano a mano che procediano e viene completamente ribaltata in entusiasmo pazzo generale quando intravediamo un troupe televisiva nel bel mezzo della steppa. La domanda sorge spontanea: vuoi vedere che i GoodFellas finiscono anche in un film trash mongolo? Daniele e Cristiano si incamminano, per un primo approccio, mentre gli altri rimangono al loro posto di fianco ad Ariosto. Questi vengono un po’ colti di sopresa quando scorgono Cristiano sul braccio meccanico per le riprese dall’alto e a questo punto non si può più tenere a freno la loro curiosità. Daniele spiega che non si tratta di un film, ma di un video-clip della più famosa cantante pop mongola, la inimitabile Shelly. Purtroppo il regista non ci consente di partecipare come comparse e ci accontentiamo di uno scambio di regali con la Diva: una maglietta per lei e 7 Cd del suo attesissimo nuovo album per noi!

Comunque carichi dall’evento, riprendiamo la marcia per UlaanBaatar, decidendo all’unisono che stasera bisogna festeggiare e prenderla davvero grossa, in fondo ce lo siamo meritati! Lasciamo la inaspettata strada a 4 corsie a circa 20 Km da UlaanBaatar, inoltrandoci nell’ampio vuoto della steppa.

Giunti a distanza adeguata per non essere più disturbati dal rumore del traffico, piantiamo le tende e prepariamo cena a base di risotto ai funghi e parmigiana, mentre Marco e Cristiano si avviano al più vicino market per il fondamentale acquisto alcolico. Una volta rientrati al campo base possono iniziare festeggiamenti e il volume della musica proveniente dal mitico Ariosto si alza di conseguenza. Il riso è un piatto da cottura abbastanza lunga, specialmente se fatta in un piccolo anche se efficiente fornellino da campeggio, ma noi riempiamo l’attesa e ci scaldiamo con diversi tapones a testa di vodka Chinghis Khan, la più prelibata. La prima bottiglia si esaurisce durante la cena e lo sketch successivo vede noi Fellas rinchiusi nella tenda del compianto Massi a fare un gioco di carte alcolico e a fumare il Narghilè: la cappa è allarmante ma ce ne sbattiamo allegramente e volano risate su risate. Daniele, in perenne sfida ormonale con Cristiano, stravince la gara alcolica personale, a discapito però della sua salute. Prima di abbandonare il gruppo anticipatamente fa però in tempo una frase epica che rimarrà ai posteri: “shono shobrio come se non ci fosse un domani!”. Lucia è così costretta ad accudire il povero Daniele che si rantola in tenda, vomitando ogni volta che lo si prova a muovere per adagiarlo definitivamente dentro al suo sacco a pelo. Niente da dire: c’era da prenderla grossa e Daniele l’ha presa più grossa di tutti, ben fatto! Laura, un po’ schifata dall’odore nauseante della tende, preferisce passare la notte in pulmino ed inizia a sistemare la fila posteriore per renderla il più accogliente possibile, mentre i Fellaz sopravvissuti spaccano del tutto la tenda del povero Massi. A detta di tutti, quella Quechua era ingombrante e soprattutto inutile e si meritava cotale fine! La bella serata si conclude tranquilla a ora tarda e i Fellaz rientrano nei propri sacchi a pelo felici, ma anche un po’ rammaricati per l’imminente conclusione del “most epic road trip in the world”.

DAY 41 – FROM SHARGALJUUT TO ARVAIKHEER

Buongiorno Goodfellas!
Nonostante il lieve odore di capra che aleggia nella gher, un piacevole risveglio accompagnato da Benuta, marmellata, chaino e caffè ci da la giusta carica per iniziare la giornata. Oggi il programma prevede relax: ci troviamo difatti in una nota località termale mongola, conosciuta per le proprietà curative delle sue sorgenti caldissime. Dopo giorni di strade ad ondine e sabbia in ogni dove, abbiamo deciso che un po’ di meritato riposo è quello che ci serve per arrivare ad UlaanBaatar in forma smagliante.


Il gentiluomo che ci ha affittato la gher ci aiuta a trasportare le nostre attrezzature sopra Ariostone, dove vengono riposizionate ordinatamente da Marco, Fede e Lau, mentre Cristianuccio, Jack e Daniele si dedicano a immortalare qualche yak.

Poco dopo ci dirigiamo in paese e ci equipaggiamo per esplorare il cammino curativo. Il percorso consiste in diverse costruzioni di pietra contrassegnate da cartellini i quali indicano le proprietà di ciascuna sorgente, ovviamente in lingua mongola. Non vi è un tragitto specifico da rispettare, ma noi, in men che non si dica, riusciamo a prendere diverse direzioni, aka, ci dividiamo. Parlando con una nonnina che incredibilmente mastica qualcosina d’inglese, riusciamo a scovare una casupola, che per un attimo pensiamo esser una vasca termale. Con nostro immenso stupore, scopriamo che dietro la tendina (porta) ci sono tre vasche impiantate nel pavimento: servono per mettere a bagno i piedi nell’acqua. L’illusione di poterci fare una doccia dopo 5 giorni di deserto per un attimo sembrava diventare realtà, ma prima di farci scoraggiare, la cara vecchina corre in nostro aiuto, indicandoci un’altra casupola. La seconda è quella della svolta: la tendina nasconde il triumvirato di vasche servite da acqua termale che sgorga da un tubo.. vi chiederete, quindi? Ebbene si, quei furboni hanno posto un secchiello vicino ad ogni vasca: evviva i sistemi tradizionali! La nostra euforia non fa che aumentare alla notizia che il tutto è completamente gratuito! Lucia e Daniele da una parte, e Marco dall’altra, danno il via alle danze, mentre Federico e Jacopo, catturati da una ragazza che parla inglese, ne approfittano per esplorare l’itinerario e scoprire i segreti che si celano dietro ogni sorgente. E’ proprio il caso di dire: una doccia lunga un sogno. Poco a poco riusciamo tutti a farci il bagnetto, a lavare i panni, e a respirare i fumi caldi delle sorgenti per stappare nasi e pori della pelle.

Più rilassati che mai, decidiamo di culminare questa mattinata idilliaca, con sano e puro cibo mongolo alla buona. Laura e Lucia si avventurano e, dapprima, vengono attirate nel locale di un omone panciuto e palesemente in preda ad una sbronza da vodka che le accoglie a petto nudo insinuando di esser un gran cuoco, ma in seguito optano per il secondo e ultimo ristorantino della zona che è proprio nella porta accanto.

Il luogo prescelto per saziare la nostra fame è niente più che una stanza con due tavoli e otto sedie, una lista di 7 piatti (ovviamente in mongolo), e due donne e una ragazza che lavorano in cucina. Raduniamo il gruppo, incoscienti del fatto che ordinare da mangiare sarebbe stata un impresa più ardua del previsto. Il momento è catartico: Lucia e Laura cercano di utilizzare qualsiasi strumento a loro disposizione per comunicare, guida, disegni, segni con le mani e versi di animali ma non c’è modo di capire che caspita ci sia nei 7 piatti elencati nel menù.  Alla domanda “qui c’è bee o muuu”, la risposta della ragazza è “meeee”.

Dopo 20 minuti, quando la scelta random sembrava esser l’ultima spiaggia, la ragazza che ha accompagnato Fede e Jacopo, unica parlante di lingua inglese del paesino, accorre in nostro aiuto. Non solo ci spiega i vari piatti, ma ci aiuta anche ad ordinare, e ci regala 10 bustine di thè verde e due confezioni di biscotti con la mucchina sopra e il cioccolato sotto. Tutto è bene ciò che finisce bene, ma non poteva finire di certo senza vedere l’omone ubriaco che seduto sulle scale si dedicava a quello che crediamo esser uno dei suoi sport preferiti: dare fuoco ad una testa di capra con una piccola fiamma ossidrica, sorseggiando l’immancabile vodka.

Sazi e soddisfatti, ci mettiamo in marcia con Jack alla guida. Data l’esperienza della sera precedente, ci aspettavamo di rifare lo stesso tragitto (5 guadi, di cui 2 notevolmente pericolosi, diverse salite con terreno fangoso, e un letto del fiume insabbiato), ma incredibilmente nel giro di 30 minuti ci ritroviamo al bivio con la strada principale in direzione Arvaikheer, quindi optiamo per una sosta a base di tiri a pallone, foto in salto e liberazioni di intestini da eccesso di carne di montone.

Ci rimettiamo in marcia per trovare poco dopo la tanto bramata strada asfaltata, che ahimè, si rivela esser un’enorme delusione. L’asfalto c’è, ma anche diverse buche, il che non ci consente di andare ad una velocità superiore ai 60 km/h. Riusciamo comunque a raggiungere il nostro scopo, superare Arvaikheer, e spingerci oltre per circa 30 km, seppur a sera tarda, fino a quando Jack, Marco e Fede scovano una vallata dove decidiamo di fermarci a passare la notte.
Oramai super organizzati, ognuno ha la sua mansione: Lucia, Daniele, Jack e Fede montano le tende, Laura, Marco e Cristiano cucinano, e, da bravi cuochi, per questa sera ci deliziano con ben due tipi di pasta: pesto e pomodoro, e pasta e fagioli. Non siamo soli però: un cane pastore mongolo ci ha accolto e avendo subito afferrato che siamo gente tosta, ci ha tenuti d’occhio tutta la sera!
Pur rendendoci conto che la cacca è un tema predominante dei nostri racconti, non possiamo fare a meno di sottolineare che è sempre un’ottima mossa strategica per riscaldarci: la temperatura diminuisce al calar del sole, ma lo sterco di cammello riesce comunque a regalarci un piccolo falò piuttosto profumato in questa terra straordinaria. Sono questi momenti che ci fanno urlare “GOODFELLAAAS”, prima di coricarci stretti stretti dentro le tende con le pance ancora piene di fagioli e la consapevolezza di esser ad un passo dall’arrivo.

DAY 40 – FROM BUUTSAGAAN TO SHARGALJUUT

La giornata inizia con uno sketch di rara bellezza: dopo aver sofferto un freddo pazzesco durante la prima notte mongola, si era deciso che Cristiano, Laura, Lucia e Daniele avrebbero dormito in un unica tenda. Essendo quest’ultima da 3 persone, si confidava in una situazione tipo bue/asinello, dove la vicinanza e i fumi notturni post zuppe di cipolle e fagioli, avrebbero ovviato alle inaspettate temperature notturne. Forse proprio a causa di questi fumi, il risveglio di stamattina è stato segnato da un epico scambio di persona. Era già un po’ che Cri e in particolare Lau godevano del caldo abbraccio di Dani: la convinzione che fosse solo un affettuoso gesto da amico è però svanita quando Daniele ha appoggiato una mano a terra e si è avvicinato a Lau per darle un dolce bacio di buongiorno. Gli occhi dell’appannato Fellas incontrano quelli di una smarrita Laura: momento di silenzio.. Ecco, nello sguardo di Dani si può distinguere distintamente il momento in cui i neuroni si collegano e quando si accorge di aver completamente scazzato soggetto, non può fare a meno di lasciarsi sfuggire un bel “WHADDAFUUUUCK?!?”. L’ilarità generale che ne consegue facilita la sveglia del resto del gruppo e, dopo una rapida colazione, partiamo alla volta di Bayankhongor.

L’obiettivo di giornata è fermarsi qui per pranzo, quindi proseguire fino a Shargaljuut, sede della più celebre sorgente termale della Mongolia. La strada è più brutta del solito e anche se Fede guida sicuro sulle piste selvagge, siamo costretti a ritardare i nostri piani. Ma dopo aver letto sulla Lonely Planet il trafiletto dedicato alle Terme di Shargaljuut la motivazione è massima: sudici e puzzolenti dopo giorni di viaggio in mezzo al nulla, non riusciamo a pensare a niente che sia meglio di un rilassante bagno nell’acqua bollente al chiarore della luna e delle stelle. Quindi senza neanche concederci la pausa pranzo sfrecciamo senza sosta verso la prima tappa della giornata, ma quando vediamo l’insegna “Food” che campeggia su un’isolata gher poco prima di Bayankhongor, i nostri stomaci gorgoglianti ci intimano di fermarci. Purtroppo la “regola del montone” non sbaglia mai e anche questa volta tutti i piatti sono a base dell’ormai onnipresente ovino. Non ce la facciamo, abbiamo pregustato la pausa pranzo troppo a lungo per darci per vinti a questo modo. Quindi proseguiamo, sicuri che nel vicino centro abitato troveremo cibo più gustoso per i nostri denti.

Arrivati in città, dopo aver riempito di ottimo diesel il serbatoio di Ariostone, parcheggiamo di fronte ad un (udite udite..) centro commerciale. Dani e Lucy prendono la cassa comune e si dirigono nel supermercato con una lista della spesa molto dettagliata: abituati ai minimarket concentrati in un’unica stanza, la vista di corridoi e scaffali dotati di (quasi) ogni bendiddio ci fa esageratamente esaltare. Intanto gli altri Fellas dopo aver comprato l’immancabile pallone (l’ultimo ce lo eravamo dimenticati nella steppa russa), si sono diretti alla scoperta del grande magazzino. Tra cibo, pneumatici, materiale elettronico, CD musicali e pentolame, ecco spuntare uno stand con abbigliamento fake-tecnico sul quale tutti ci fiondiamo in men che non si dica! Cri in particolare aveva perso una scarpa pochi giorni prima e adocchia subito un modello simil NorthFace: la contrattazione inizia ma alla fine non se ne fa nulla e il fotografo del gruppo continua così ad andare in giro con due scarpe diverse. Carichi come muli torniamo al van, il quale nel frattempo era stato circondato da un manipolo di scugnizzi della zona. Il gruppetto, letteralmente in adorazione per Ariosto, intavola una trattativa lampo con Marco che a suon di scritte sulle vetrate impolverate gli fa capire che il nostro amato pulmino NON si vende! Rientriamo in macchina con un sorriso stampato sulle labbra perché evidentemente non siamo i soli a renderci conto che Ariosto è il pulmino più tosto..

Ancora non siamo riusciti a pranzare e decidiamo di fermarci in un ristorante dove la cameriera pur non capendo un acca di quel che le chiediamo, ci mostra dei piatti che ci fan venire l’acquolina in bocca.

Mentre lei va in cucina a preparare, Marco, Fede, Dani e Jack non si lasciano sfuggire l’occasione di “sculacciare” i giovani locali in un rapido match a calcio ad una porta sola. Visto che i mongolini non erano così entusiasti di sfidare i Goodfellas, i nostri eroi li lasciano inizialmente giocare e quando il richiamo di Lucy ci costringe a interrompere, sono loro ad essere avanti!
Il pranzo delle 17 è effettivamente ottimo e, dopo esserci leccati le barbe come si deve, risaltiamo su Ariosto con in mente soltanto le terme. In realtà la strada è più lunga e impervia del previsto: quando il sole sta per tramontare ci troviamo di fronte a quello che è il guado più impegnativo incontrato. Sembra più un fiume che una pozza a dirla tutta e, anche se Cri e Dani sono già coi piedi in acqua a testare la profondità del corso d’acqua, Marco ha finalmente occasione di sfoggiare le tanto agognate calosce.

Superato l’ostacolo con successo ci rimettiamo in marcia, ma sembra di non arrivare più. Intanto si fa buio e, mentre la strada si fa sempre più impervia, noi perdiamo un po’ di convinzione: sarà la strada giusta?! Improvvisamente… svolta! Un pulmino ci si accosta e scopriamo che va proprio dove dobbiamo andare noi. E’ uno di quei vecchi minivan russi con degli ammortizzatori esagerati, che trasportano gli sperduti abitanti delle gher da un posto all’altro.

Quello a cui ci affidiamo ha, in più degli altri, anche l’autista sbronzo: quando scende dalla macchina per dirci di seguirlo si sente distintamente la puzza di alcool. Ma pazienza, non abbiamo altra scelta e comunque sembra cavarsela bene tra le stradine di montagna, a strapiombo e piene di buche improvvise. Sembrava impossibile ma alla fine raggiungiamo le terme: di notte sono un po’ diverse da come ce le immaginavamo. Sembra di essere in un film: un hotel piuttosto kitch domina la scena e noi ci mettiamo subito alla ricerca del Dott. Bournè, l’unico contatto consigliato sulla guida. Chiedendo un po’ in giro riusciamo a scoprire che questo personaggio abita in una zona distaccata rispetto all’hotel; nel buio più totale ci incamminiamo aiutati solo dalle nostre lucine da testa. Gli enormi cani randagi visti dalla macchina ci fanno procedere tanto rapidi quanto cauti e arrivati di fronte alla casa indicataci, iniziamo a chiamare a gran voce il dottore in questione. Dopo poco esce un uomo in mutande che a quanto pare non è il personaggio che stiamo cercando noi, ma comunque ci offre di dormire in una gher la vicino per quello che corrisponde a dei modici 10 euro totali. Come rifiutare!? Sfiniti, ci facciamo aiutare dal nostro nuovo amico a trasportare il minimo indispensabile dal van alla gher. Alle 23 riusciamo a imbastire una cena a base di piselli, purè e lenticchie.

Qualcuno mangia praticamente con gli occhi già chiusi, gli altri sfiniti piazzano il sacco a pelo e raggiungono immediatamente il resto della truppa nel Mondo dei Sogni.

DAY 39 – FROM ALTAY TO BUUTSAGAAN

La sveglia suona alle 6, e senza esitazione tutti i Fellaz fanno il loro dovere. In tempi record ci ritroviamo nel pulmino pronti a partire. Nessuna battuta, nessuno scherzo:  l’aria che si respira è piuttosto tesa e non c’è voglia di ridere. Il nostro unico obiettivo è quello di arrivare a Gobi-Altai il prima possibile, raggiungere l’auto service officiale del Mongol Rally e sperare che abbiano le due vite mancanti al nostro sotto-scocca.

La soluzione temporanea adottata non assicura stabilità alla placca, perciò Cristiano, che riprende la guida, si avvia ad una velocità massima di 20 km/h, fermandosi ogni 15 minuti circa a controllare le condizioni di Ariostone nei piani bassi. La strada non è diversa dal giorno prima: ondine, sabbia e sassi ci accompagnano, ma questa volta il nostro amato van non può esser spinto oltre. Dall’interno, la strada presa a questa velocità sembra cullarci e in poco tempo, chi per la stanchezza, chi per non voler pensare, ci ritroviamo adagiati nei sedili in modalità pennichella ristoratrice. Dopo circa tre ore, arriviamo a Gobi-Altai. Alla prima pompa di benzina, dissetiamo Ariosto e ne approfittiamo per chiedere informazioni riguardo l’officina. Dopo l’ormai tradizionale ma poco affidabile indicazione “tutto dritto”, ci avviamo verso il centro città, quando un cartello su scritto AUTO SERVICE MONGOL RALLY a caratteri cubitali ci indica la via. La speranza comincia ad affiorare. Arriviamo, parcheggiamo e i Fellaz meccanici e non si fiondano dentro una specie di studio/negozio per appurarsi dell’esistenza delle viti essenziali.

Una chiacchierata di 15 minuti porta al risultato tanto sperato: le viti ci sono. Non erano in vista né in esposizione: stavano semplicemente aspettando noi nel retrobottega dentro uno scatolone di cianfrusaglie. Cristiano e Marco annunciano la buona novella e, armati di tappetini blu, si prodigano per mettere a nuovo il nostro miglior amico sotto-scocca.

A questo punto ci dividiamo: Laura e Fede sentono il richiamo Benuta provenire da un vicino supermarket, e quatti quatti si dirigono in quella direzione. Lucia e Guillaume si cimentano in una collaborazione franco-italiana per preparare il caffè più veloce della storia, mentre Daniele e Jacopo si dedicano a fotografare ed aiutare i prodi meccanici. Quando ci dividiamo i compiti siamo veramente imbattibili!! In men che non si dica, Laura e Fede tornano con un sacco di carta igienica, mucchine (biscotti al burro con sovrimpressa una bellissima mucca, ufficialmente i nostri biscotti preferiti!!) e Benuta, e mentre la moka borbotta i Fellaz a lavoro ci danno la lieta novella: è tutto aggiustato! E’ proprio in quel momento che una macchina rossa entra decisa nel parcheggio dell’officina e si posiziona al nostro fianco: sono due ragazzi, fratelli gemelli, australiani che sono in marcia per UlaanBataar come partecipanti del Mongol Rally. Inutile dire che le chiacchiere si sprecano mentre consumiamo la nostra colazione e, a seguire, una foto con i fratelli gemelli Bonacci gli tocca. Ci salutiamo, convinti che ci rincontreremo lungo la via.

Sono le 13, ed è ormai ora di rimetterci in marcia, ergo, è arrivato il momento di salutare Guillaume. Abbracci, cinque alti e strette di mano abbondano, ma non può di certo mancare una fantastica foto in salto con colui che per qualche giorno è stato uno di noi, il nono fellaz.

In quanto parte del gruppo, Guillaume si sente di dedicare all’insostituibile Massi un video in cui avverte con accento francese piuttosto pronunciato il buon Massi di aver preso il suo posto!!!! Diciamo piuttosto che ha occupato il sedile vacante nel pulmino: caro Guillaume, il nostro Massi non si tocca!!

Ore 14, finalmente, ci mettiamo in marcia verso Bayankhongor, ultima tappa nel deserto del Gobi. Inaspettatamente troviamo asfalto per i primi 120 km e riusciamo così a recuperare il tempo perso con Daniele alla guida che tocca i 140 km/h.. un matto! Secondo Fede il veggente l’asfalto durerà fino a UlaanBataar, ma poco dopo aver espresso questo pensiero ardito, il comfort finisce e ad aspettarci ci sono le nostre amiche ondine, sabbia e sassi a volontà! A parte un inizio disseminato di buche irregolari e piuttosto profonde, la strada in seguito non sembra esser poi così male e Daniele ne approfitta per sfoggiare la sua arte di guidatore da deserto. Una breve pausa pipì nel mezzo del nulla si prolunga con un torneo di tiro al bersaglio e così, ne approfittiamo per placare la nostra fame con la tanto agognata Benuta. Sono le 6 e la prima tappa del nostro itinerario, Butsagaan, non sembra esser poi così lontana.

Mentre Ariosto sta scalando una salitona di sabbia abbastanza ignorante, scorgiamo in lontananza una macchina blu, che sembra avere una targa gialla, quindi inglese, e.. un adesivo del Mongol Rally. Dopo un rapido approccio, facciamo la conoscenza di questo nuovo team formato da tre ragazze irlandesi con degli occhiali da vere esploratrici. Due foto con la nostra e la loro GoPro e via ripartiamo, sicuri di incontrarci poco più tardi.

All’entrata del paesino, Jacopo chiama la sosta per attaccare l’adesivo Goodfellas e far capire che “noi siamo stati qui”, mentre Marco e Cristiano ne approfittano per controllare la temperatura, che sembra esser un po’ inferiore al normale. Cautela ed attenzione al dettaglio meccanico delle volte possono causare ebollizione, niente che non può esser curato con una sosta al primo simil meccanico del paese. La ricerca stava per iniziare quando scorgiamo le macchine dei nostri amici australiani e delle ragazze irlandesi accompagnati da una terza macchina. Li approcciamo e dopo due chiacchiere rassicuranti assieme ai nostri amici rallisti e un secondo controllo al motore ci tranquillizzano sulle condizioni di Ariostone, era tutto un falso allarme!! A questo punto, data l’ora tarda, non possiamo fare altro che accamparci tutti insieme 7 km più avanti concludendo questa epica giornata “in allegria”! Mentre Jacopo e Marco si lanciano alla caccia della vodka più buona della Mongolia, Lucia e Laura fanno conoscenza del terzo team composto da una sola ragazza, Kate!! A questo punto è comunque doveroso specificare che il gruppo iniziale era di 4 ragazze, ma, chi per motivi di lavoro, chi attratto da paesaggi misteriosi e solitari, non hanno deciso di continuare il Mongol Rally lasciando così all’ultima componente l’ardua missione: portare la macchina fino alla finish-line. Determinata Kate non si è lasciata spaventare dall’idea di guidare da sola quindi, partendo dal Kazakistan, è arrivata fino a qui. Fortunatamente, il suo itinerario si incrociava con quello dei ragazzi australiani e le ragazze irlandesi, difatti scopriamo che le tre macchine viaggiano assieme già da un po’. Dopo esser saltati di gher in gher, i fellaz alla ricerca di alcolici tornano vincitori con il miglior esemplare di Vodka rintracciabile in tutta la Mongolia: stasera ci vogliamo rovinare! A poco meno di 7 km, le ragazze irlandesi riescono a scovare un posticino a dir poco suggestivo: un erba quasi radente ma di un verde acceso si intreccia con massi delle più svariate dimensioni mentre il tramonto alle nostre spalle si colora di sfumature violacee.
Il montaggio tende sta per prendere il via quando Cristiano dichiara la sua gelosia verso Jacopo: ricordate la scarpa persa in Cappadoccia? Bhè Cristiano non poteva né voleva esser da meno: anche lui ha perso una scarpa! Fingendosi dispiaciuto ne approfitta per farsi un girettino solo soletto con Laura in Ariostone, a questo punto semi vuoto dall’attrezzatura, con la scusa di andare a cercare la scarpa al villaggio. Dopo una vana ricerca, i due fellaz tornano rassegnati alla base, ma si consolano immediatamente al sentire il menù della serata: zuppa di patate e cipolle, una delizia per noi viaggiatori! La serata evolve velocemente, dopo un pasto veloce, tocca al fuoco acceso con sterco di cammello e benzina a riscaldarci, mentre a poco a poco vengono snocciolate imprevedibili disavventure da rallisti. Poi si sa, quando lo sterco viene meno, la vodka prende il sopravvento, e solo in questo momento le tre ragazze irlandesi tirano fuori un’armonica e un bodhrán, una sorta di tamburello tipico irlandese accompagnato da un piccolo mazzuolo di legno. Inizia così una carrellata di piacevolissimi remake con l’inno di apertura “Don’t worry, be happy”, passando per la più classica “Redemption song” fino ad arrivare ad un popolarissimo gioco alcolico irlandese che accompagniamo allegramente con un “eeeeeeeeeeeeeh” a squarcia gola. Una delle serate più piacevoli di tutto il viaggio si conclude piuttosto tardi rispetto ai nostri standard, sebbene il suono delle nostre sveglie non si farà ignorare facilmente domattina…

DAY 38 – FROM KHOVD TO ALTAY

La nuova disposizione delle tende ci assicura un risveglio meno traumatico rispetto alla nostra prima notte in Mongolia. Daniele e Cristiano si svegliano prima di tutti e preparano la classica colazione Goodfellas che niente ha da invidiare alle colazioni continentali degli hotel gustate dall’Iran in poi. Mentre Lucia e Laura si allontanano per dedicarsi alla pulizia personale che in Mongolia inizia a scarseggiare, veniamo raggiunti dai nostri vicini di gher. L’allegra famigliola ci porta in dono un enorme termos pieno di latte di giumenta fermentato (sapore forte, ma gustato bollente diventa l’ottimo accompagnamento per i nostri “mucchini”) al quale noi prontamente replichiamo con tazzine dell’immancabile Caffè River. Le conversazioni diventano sempre più improbabili: i mongoli sono principalmente un popolo di pastori e, nonostante la loro infinita ospitalità, sembra sempre più lampante quanto poco siano abituati a comunicare con qualcuno che non parla la loro lingua.

Di punto in bianco veniamo congedati (perché così usa) quindi carichiamo Ariostone e cazzeggiamo allegramente fino alle 9.30. Lucia si cimenta nella sua prima guida in terra mongola passando dei guadi resi più ostici da attraversamento cammelli (qua gli high five si sprecano) e strade cosparse dalle ormai celebri “ondine”, che creano non poco nervosismo all’interno del van.

La teoria sperimentata da Lau e Cri in Africa è la seguente: viaggiare oltre i 60 km/h diminuisce gli effetti di questo particolare tipo di strada, rendendo tutto più confortevole. Effettivamente sembra che la tattica funzioni, ma quando le sopracitate ondine diventano troppo alte, nelle file più remote del nostro Transit si balla manco fossimo sul Tagadà. Appianate le tensioni con una chiacchierata e una pacificatrice foto di gruppo a 360 gradi, ripartiamo più carichi di prima in direzione Altay dove vogliamo assolutamente arrivare entro sera.

Per pranzo ci fermiamo in uno dei pochi paesi che troviamo per strada. Per ottimizzare i tempi prepariamo due abbondanti ciotole di insalata di scatolame che ci sbafiamo direttamente dal benzinaio dove facciamo il pieno. Anche se Jacopo ha iniziato a odiare questo mix di legumi già da qualche giorno, c’è da dire che, con un’abbondante dose di olio del Menci e chilate di pane, questo pasto ci fa sentire dei gran signori, e Guillaume sembra apprezzare!


Cristiano prosegue la cavalcata di Ariosto nel deserto, intervallata solo da “rapide” pause per far foto al comunque splendido paesaggio. Intorno a noi, il nulla: la pianura sconfinata si interrompe raramente per lasciar spazio a mandrie di cavalli selvaggi che profumano di libertà.

Al tramonto però ci troviamo ancora troppo lontani da Altay per sperare di raggiungerla. Cominciamo a discutere sul da farsi: accamparsi appena vediamo un posto invitante o continuare a guidare finché c’è n’è!? La strada non sembra così malridotta e, visto che Cristiano sembra aver trovato la perfetta velocità di crociera per aver la meglio sulle ondine, decidiamo che la seconda opzione è quella che fa per noi. Tutto sembra andare per il meglio, quando Jack si accorge di un rumore sinistro proveniente da sotto il pulmino. Cristiano scende per controllare se tutto è apposto e quando si rialza, annuncia al gruppo la tremenda notizia: “Ragazzi, il sotto scocca è andato” ed è proprio la frase che MAI avremmo voluto sentire. Abbiamo perso una delle due viti e i relativi dadi che fissano al telaio la lamiera di protezione del motore: noi, da bravi Goodfellas super organizzati e previdenti, abbiamo prontamente dimenticato i bulloni di ricambio. Ovviamente non è più il caso di proseguire e ci parcheggiamo in un vicino spiazzo, per poter permettere ai meccanici di turno Cristiano e Marco di trovare una soluzione anche solo momentanea al problema: cuciniamo un ottima pasta ma si respira un’aria di tensione nel gruppo, non sappiamo se troveremo i pezzi di cui abbiamo bisogno e soprattutto quanto tempo richiederà la sosta dal meccanico ad Altay. A questo punto, i due veri ingegneri del gruppo, Marco e Cristiano (Federico e Daniele lo sono solo su carta), si mettono all’opera. L’intenzione è aggiustare il sottoscocca con improvvisati pezzi di ricambio e fare in modo che, l’indomani, potremo arrivare sani, salvi e sottoscoccati al meccanico affiliato al Mongol Rally. Individuano due viti e due dadi che potrebbero fare al caso loro ma, dopo una prima rapida prova, constatano che la lunghezza dei nuovi pezzi è inferiore a quelli originali. L’unica soluzione possibile consiste nell’utilizzare delle rondelle speciali a forma di cono fra dado e lamiera, in modo tale da colmare quel difetto di pochi centimetri. Quel maledetto gancio di traino (i nostri stinchi sono ancora coperti di lividi..) non vuole proprio smontarsi e devono così rinunciare alle sue prezione rondelle. L’aria è satura di scoraggiamento quando a Fede viene in mente che si può tentare a fabbricare rudimentali rondelle coniche con i tappi dei barattoli vuoti, di cui fortunatamente abbondiamo. Cristiano è convinto che siano troppo duttili e che, una volta pressati tra dado e sottoscocca, si rompano, vanificando tutto il lavoro svolto. Così, individua un possibile rinforzo nel tappo della pistola del silicone, rigido, solido e spesso: insomma proprio un bel nappo. I due tentano nuovamente e con successo! Marco avverte però il resto della truppa che sono stati capaci di fissare il sottoscocca con un approssimativo bullone solamente nella parte sinistra, mentre nell’altra è presente solo una vite svolazzante. Quindi consiglia cautela al guidatore del giorno seguente ma inculca comunque ottimismo nella truppa, che può finalmente tornare a concentrarsi su quello che gli riesce meglio, mangiare…

DAY 37 – FROM OLGII TO KHOVD

Il cellulare di Nello incomincia a vibrare alle ore 6.30 nel buio e nella quiete della gher. Nonostante cerchiamo di sistemare le nostre cose e uscire il più silenziosamente possibile, per non disturbare il sonno di chi così gentilmente ci ha offerto riparo per la notte, riusciamo comunque a svegliare la padrona di casa. Visibilmente a suo agio nelle ore mattutine, inizia immediatamente a pimpare la stufa di sterco secco per avviare il focolare, riscaldare l’ambiente e il chai salato. Uno ad uno si mettono in piedi anche tutti gli altri membri della famiglia, obbligandoci a condivere anche la prima colazione con loro, vale a dire gli avanzi della sera prima tirati fuori da un mobiletto scricchiolante.

Essendoci imposti una media giornaliera di 250 km, ci congediamo alla svelta e riprendiamo il cammino per Ulaan-Bataar, disponendoci sul Van come meglio crediamo. La speranza di percorrere strade asfaltate si rivela alquanto utopica data l’alternanza di ghiaia, imprevedibili buche, malefiche ondine, sassi che secondo Daniele “fanno tanta paura” e, come se non bastasse, ben 4 guadi. L’eccitazione della prima volta lascia spazio ad una seria preoccupazione già dal secondo attraversamento, ma la mano salda di Fede, quest’oggi alla guida, supera l’ostacolo senza particolari problemi, tranquillizzando tutti quanti i Fellaz, Guillaume compreso.

Per la gioia dell’affamato gruppo, verso l’una di pomeriggio vediamo Khovd comparire all’orizzonte e ci dirigiamo senza esitazione alla ricerca di un localino simile a quello del mercato di Olgji, sudicio ed economico. La ricerca si rivela però piuttosto ardua: tentiamo ovunque scorgiamo insegne raffiguranti piatti tipici, ma veniamo ripetutamente e sgarbatamente respinti per una presunta chiusura della cucina. Dato che il nervosismo aumenta a dismisura di pari passo con la voglia di Khuushuur, decidiamo di rifocillare almeno il povero Ariosto che se la sta cavando alla grande anche sulle impervie strade mongole. Sbolliti un po’ gli animi, ritentiamo con successo in un altro posto, accontentandoci di una scelta puramente a caso dal menù e lamentandoci della mancanza di frittelline al montone, sicuramente le nostre preferite. La piccola tavola è ormai colma dei piatti ordinati, quando Daniele e Jack tornano carichi di Khuushuur, almeno due per ciascun Fellaz. Gli occhi più grandi della bocca ci hanno spinto a “cacare di fuori” ancora una volta, ma l’andarsene avendo lasciato anche solo una briciola sparsa non è assolutamente contemplato! Stuzzicando il loro testosterone, convinciamo così Cristiano e Daniele a riprendere la questione sul chi mangia di più: onde evitare una pubblica umiliazione non verrà detto il nome del perdente, fatto sta che le frittelline vengono volatilizzate in un batter d’occhio. Con il montone che ci esce anche dalle orecchie, riprendiamo la marcia, approfittando delle tre o quattro ore di luce che ci sono rimaste a disposizione. La totale mancanza di qualsiasi indicazione, i gesti approssimativi dei locali a cui chiediamo informazioni per Gobi-Altay e il pesante abbiocco pomeridiano concorrono in egual misura a farci imboccare però una strada sbagliata. Percorriamo circa 10 Km quando, immergendoci in un alveo prosciugato e sabbioso, ci convinciamo definitivamente che la direzione non è quella giusta. Poco male, Marco fa inversione di marcia e dirige Ariosto nuovamente verso Khovd. Questa volta, assicurandoci ad ogni benzinaio che procediamo bene, lasciamo la cittadina definivamente e proseguiamo il nostro cammino per Gobi-Altay.

Le condizioni delle vie di comunicazione terreste non cambiano di molto rispetto alla tratta precedente e riusciamo quindi a consumare solamente 50 Km prima del tramonto, comunque molto soddisfatti di aver addirittura oltrepassato l’obiettivo giornaliero. Date le nostre ormai raffinate skills da boy-scout, l’accampamento viene assemblato piuttosto rapidamente, concedendoci così il tempo per un deliziosa e prolungata cenetta a base di prelibate zuppe di legumi, farro, cereali, etc. Guillaume si lancia nel racconto delle sue mirabolanti avventure, riportate anche nel suo interessantissimo blog, e noi rispondiamo di conseguenza, conciliati dal sapore di un Chai e dall’aroma del tabacco del Narghilè. Stanchi ma allietati dalla piacevole serata, ci infiliamo nei nostri sacchi a pelo, non prima di avere indossato le mitiche e caldissime calze di cammello.

DAY 36 – OLGII

Ci svegliamo come pezzi di ghiaccio, la notte è stata la più fredda da quando siamo partiti e ha addirittura costretto Daniele a dormire dentro Ariosto. Alle 7 il sole non scalda ancora molto, ma siamo già attivi; macinare km è la parola d’ordine dato che da qui in poi non sappiamo cosa ci  riservino le strade.

Ci riscaldiamo con una delle più classiche combo Pane & Benuta™ che tra un picchetto e uno sbadiglio ci fornisce le energie giuste per smontare l’accampamento. Mentre iniziamo a caricare Ariosto un motociclista si avvicina al nostro super mezzo con fare curioso, Marco inizia ad intrattenere l’ospite offrendogli una tazza del nostro caffè creando subito dell’ottimo feeling che poco dopo si conclude con un test drive della classica motina mongola. Nello gasatissimo non si fà pregare e saltato sul velocipede si lancia alla conquista della collinetta più vicina, questo il responso a fine test: La Shiban 150 è una 4 tempi di fattura cinese che unisce l’agilità del Pika alla robustezza dello Yak, fornendo al Mongolo moderno il mezzo ideale per il fuori-porta domenicale, rigorosamente senza casco. Dopo la stretta di mano e l’adesivo di rito sul parafango congediamo il nostro amico proprio mentre in lontananza vediamo arrivare Guillaume, quel matto di un ciclista francese che avevamo incontrato in frontiera. Ci scambiamo informazioni in merito all’itinerario e visto che il passaggio a nord puó riservarsi piuttosto arduo a causa degli svariati corsi d’acqua da guadare decidiamo per la più trafficata strada sud che attraversando i monti Altay conduce fino ad Ulanbataar in circa 5/6 giorni così da minimizzare i rischi di un ritardo per problemi meccanici dovuti agli off-road che ci aspettano da qui in là. Il tempo di una foto in salto e siamo pronti per partire alla volta di Olgii, con Jack alla guida sgommiamo sulla steppa mongola lasciandoci il freddo laghetto alle spalle.

Le strade non esistono più, ed ogni pista si interseca con altre, rendendo la guida tanto difficile quanto divertente.  Nonostante lo sterrato Ariostone risponde bene e dopo aver caricato un autostoppista locale arriviamo a destinazione verso l’ora di pranzo.

Il tempo di ritirare i primi Tugrik e ci immergiamo nel caotico bazaar cittadino, dove andiamo alla ricerca dei famosissimi calzini di cammello che si dice siano caldissimi, l’ideale per le gelide notti di campeggio mongolo. Gli stomaci iniziano a borbottare, quindi si decide di posticipare la ricerca degli agognati calzini a favore di un pranzetto a base di montone. Fede spotta il posticino giusto, il ristorante si presenta con un unica sala spoglia dall’odore pungente ma i prezzi popolari e i khuushuur (frittelle di montone) caldi che vediamo sui tavoli ci convincono a sederci. Ne ordiniamo una valanga e le facciamo sparire con la stessa rapidità con cui Poldo mangia panini.

Appesantiti dalla pappata ci dividiamo in tre gruppi, uno si occupa della spesa per i giorni a venire, l’altro pensa alla cammellata mentre Nello ha solo un obiettivo, le Calosce da guado! Portati a termine i compiti ci ritroviamo davanti ad Ariosto dove ad attenderci troviamo Guillaume e la sua bici in cerca di una scarrozzata fino ad Altay. Senza troppi indugi carichiamo entrambi sopra al Van e riprendiamo la strada per Khovd con Daniele al volante.

Mentre sviaggiamo atuttofoco decidiamo che per oggi il campeggio è l’ultima spiaggia, quindi da bravi fellas decidiamo di tentate la fortuna bussando alla prima gher che scorgiamo all’orizzonte ormai purpureo. Non facciamo in tempo ad avvicinarci che veniamo accolti da due giovani ragazzi che ci invitano ad entrare, sbalorditi per l’accoglienza non ci facciamo pregare e ci introduciamo all’interno della nostra PRIMA gher! La casa della famiglia Barniz è accogliente  e nonostante le dimensioni ridotte è abitata da 7 persone, due adulti e i loro 5 figli..l’organizzazione degli spazi è interessante: i 4 letti sono addossati alle pareti lungo la circonferenza della gher, al centro invece si trovano il tavolo e il cuore della casa: la stufa, alimentata da sterco di cammello secco, dato che in Mongolia di alberi neanche l’ombra. Le pareti sono addobbate con stoffe coloratissime con disegni regolari tipici della zona. Invadiamo la gher che riesce a stento a contenere tutti quanti i 7 fellas più uno e i 7 inquilini attorno alla piccola tavola imbandita di svariate qualità di formaggio, nan e chai salato, niente di più tipico! Iniziamo a sgranocchiare quanto offertoci e tra una foto ed un’improvvisata chiacchierata in mongolo facciamo capire ai gentilissimi padroni di casa di voler ricambiare cucinando per loro una superpastaccia! Gli chef di giornata Daniele & Cristiano si superano e dimostrano le loro doti di pastasciuttari con una tonno & olive da shogno che rompe il ghiaccio e fà fare il bis anche ai non abituati fan del montone. Durante la cena scopriamo che la famiglia di Tumur è piuttosto ricca, infatti il suo pascolo conta circa 400 pecore 50 cavalli 10 mucche qualche yak e una capra. Tiriamo fuori la macchina fotografica attraverso la quale mostriamo diverse foto del nostro viaggio sin lì, l’intera famiglia è raccolta intorno al piccolo schermo ed ad ogni foto è facile leggere la meraviglia sui loro volti. A quel punto non possiamo fare altro che documentare l’avventura, quindi parte il classico giro di foto ricordo che promettiamo di inviargli una volta rientrati in patria.

Chiediamo informazioni riguardo ai cacciatori con aquila ma scopriamo che il più vicino dista 60 km dalla strada principale e purtroppo i tempi stretti non ci permettono la deviazione. La moglie di Tumur ci fà capire che è arrivato il momento di andare a dormire spegnendo il fuoco e chiudendo il tetto della gher. La situazione è strana, non si è capito se siamo stati invitati a dormire al caldo della gher o fuori nelle nostre tende, così i fellas si appropinquano al furgone e proprio nel momento in cui Cri mima il gesto del freddo Timur capisce e ci fà rientrare di corsa nella calda ed odorosa gher, anche stavolta i Goodfellas ce l’hanno fatta!

DAY 35 – FROM ONGUDAY TO…MONGOLIA!

Ci svegliamo di buon ora al calduccio di Ariosto, circondati dai camionisti e dai proprietari della casa a cui involontariamente avevamo parcheggiato davanti e ripartiamo alla volta della frontiera.

Alla guida ancora Laura, che porta Ariosto alla frontiera attraverso gli Altai, in una strada panoramica che ci regala paesaggi stupendi con fiumiciattoli e monti a far da sfondo.

Ci fermiamo solo una volta per scattare un paio di foto e fare due tiri al pallone, e verso le 14 arriviamo inaspettatamente alla frontiera russa, quando ci rendiamo conto di essere non poco affamati. Ci lanciamo quindi sui biscotti mencechi, che si rivelano un jolly notevole per bloccare almeno  momentaneamente i brontolii. Siamo in attesa delle solite pratiche doganali quando di fronte al casottino dell’immigrazione incontriamo Guillame, ciclista partito dalla Francia per 16 mesi di viaggio tra Europa e Asia centrale, con cui scambiamo due chiacchere incuriositi dall’avventura che sta intraprendendo ormai da un anno.

Ci salutiamo con Guilaume e guidiamo per 20 km nella cosiddetta No man’s Land, e le battute su quello che è permesso fare in questa Terra si sprecano, fino a che all’orizzonte scorgiamo lei: la Frontiera Mongola!!

Troviamo subito una signora in tuta bianca con la pretesa di essere sterilizzata per disinfettare i nostri pneumatici con lavaggio a pressione. Muoriamo di fame ma diamo la precedenza al temuto inport del veicolo in Mongolia. Voci narravano di strazianti 6 ore di attesa sotto il tipico vento tagliente e il solo alito degli yak che pascolano placidamente vicino agli uffici della frontiera. Vuoi per il suo sgargiante giubbotto fosforescente, vuoi perché è ormai diventato il mago delle frontiere, Jacopo impiega solo il tempo per preparare la più classica delle insalate di legumi (ormai un must per i momenti in cui non abbiamo tempo di fermarci). Goodfelliziamo anche la frontiera mongola con uno dei nostri adesivi water-proof ed iniziamo con Ariostone la nostra rincorsa ad Ulaanbataar. Neanche il tempo di varcare la frontiera, che per la prima volta dopo diverse migliaia di km ci richiedono un’assicurazione obbligatoria per modici 25 €. Lasciamo una tartaruga di peluche per la figlia dell’assicuratrice e rifiutiamo cortesemente di cambiare i nostri primi Tugrik (il cambio ci sembrava sfavorevole 1€ –> 1900T). La strada principale è rialzata e fatta di ghiaino che probabilmente fungerà da primo strato per il futuro manto di asfalto. Ai lati si snodano diverse piste che pur intrecciandosi, vanno tutte nella stessa direzione. Nonostante la strada principale sembri più bella, Ariosto mostra da subito una spiccata preferenza per le stradine sterrate che garantiscono minori vibrazioni.

Dopo aver passato 4 yak al trotto, veniamo avvicinati singolarmente da tre motociclisti, che ci offrono per un modico prezzo la loro casa per la notte. Rifiutiamo per accamparci poco dopo in una radura proprio davanti ad uno scenografico laghetto. L’entusiasmo cala quando apriamo il portellone e ad accoglierci ci sono orsi polari al posto di yak e cammelli. Decidiamo che è arrivato il momento di battezzare Ariosto anche come cucina con sala da pranzo integrata. Portiamo dentro i fornelli e iniziamo a cucinare una deliziosa zuppa di cipolle per riscaldarci gli animi.  L’unica cosa che ci manca per la zuppa perfetta è del pane da accompagnamento, il come trovarlo è però un’incognita. Ci viene in soccorso un ragazzo tarchiatello che era venuto nei pressi del laghetto a fare il pieno di acqua. Si offre di accompagnarci al supermercato della città, quindi Cristiano, Jacopo, Marco e Daniele salgono sul suo gippino alla ricerca del pane perduto. La spedizione non da i frutti sperati e i Quattro fellas tornano a mani vuote anche se gasatissimi dalle sguerguenze sul 4×4.  Trangugiamo la cena senza carboidrati e, dopo aver espletato il rito di chaino e narghilè, sempre rigorosamente dentro il van vista la temperatura esterna, ce ne andiamo a letto un po’ meno infreddoliti.

DAY 34 – FROM BARNAUL TO ONGUDAY

Possiamo concederci solo 4 ore di sonno, ma l’inaspettata ospitalità dei nostri amici italiani e la ritrovata comodità di un materasso dopo la nottata precedente rendono il risveglio decisamente più piacevole. Alle 8 ci troviamo fuori dall’appartamento con Luca per riconsegnare le chiavi ed eliminare ogni traccia del nostro passaggio, quindi ci dirigiamo verso un bar fornito dell’indispensabile wi-fi, soddisfatti di essere operativi così di prima mattina!


La nostra “sostavelocevelocegiustoperpostarequalcosasulblog” diventa ovviamente un accampamento Goodfellas al caffè più costoso di Barnaul, e anche se ci dividiamo in due gruppi mandando alcuni fellas a fare la spesa per guadagnare tempo, non riusciamo a schiodarci fino alle 15. Prima di intraprendere il lungo viaggio attraverso gli Altai fino al confine con la Mongolia non resistiamo alla tentazione di scattare una fotina con il compagno Lenin nella piazza accanto…la gopro per questo tipo di foto regala emozioni!


Daniele si mette al volante, e lasciamo la città con la benedizione di Luca, che ci manda un messaggio congratulandosi per come abbiamo lasciato ordinato l’appartamento.
La strada si rivela migliore del previsto, e l’unica cosa che possiamo fare è guidare finchè ne abbiamo, possibilmente senza le soste prolungate che ci contraddistinguono. La vista di un lago con pescatori al tramonto però ci costringe a fermarci, e si sa, una volta tirato fuori il pallone, Nello, Dani, Fede e Jack sono difficilmente recuperabili, Rimandiamo così la partenza per dedicarci al nuovo sport nazionale proposto da Federico: colpire un sasso in aria con un altro sasso in riva a un suggestivo laghetto in Siberia! Suona ridicolo, lo sappiamo, fattostà che ci ha coinvolto per quasi un’ora!

Il sole nel frattempo è calato, e anche questa volta ci tocca guidare di notte, cosa che da giorni ci promettiamo di evitare. Dopo un paio d’ore Daniele giustamente sente di dover cedere il posto a un altro fellaz causa palpebra calante, e la guida passa a una carichissisma Laura, non tanto per l’ora tarda, quanto per le ottime condizioni della strada. Comincia così una ricerca sfrenata della perfetta piazzola per accamparci, ma scopriamo nostro malgrado che questa strada è circondata da boschi inaccessibili. Al terzo tentativo decisamente troppo avventato Ariosto non ce la fa a risalire, e ha bisogno della spinta di tutti i fellaz per rimettersi in strada. Dopo questo simpatico sketch e altri tentativi falliti, decidiamo all’unanimità di accomodarci nel più caldo degli ostelli: il nostro van! Ormai perfettamente organizzati nella sistemazione dei lettucci, ci concediamo una gustosa cena a base di legumi in scatola per poi infilarci nei nostri sacchi a pelo e goderci la nostra ultima notte in preparazione della tanto agognata Mongolia…

DAY 33 – FROM PAVLODAR TO BARNAUL

ore 00.30 ci rimettiamo in viaggio con cambio alla guida: Cristiano prende il comando affiancato da Daniele e Jacopo. Gli altri si posizionano propriamente per cercare di dormire, mentre la prima fila decide di usare la notte per saperne di piú sull’Afghanistan. La storia di questo paese, sconosciuta ma estremamente affascinante, riesce a tenere svegli i tre fellaz, che solo a tratti si concedono delle mini pennichelle. Sono le tre del mattino e da lontano sembra di scorgere un gruppo di macchine ferme sul ciglio della strada. Proprio da lì spunta la sagoma di una sposa; increduli, dopo esserci accertati dell’inaspettato incontro, con una notevole inversione, decidiamo di raggiungerla. Ariostone non fa in tempo a tentare l’approccio con il van della fortunata, che un poliziotto in palese stato d’ebrezza spunta di soppiatto, infilandosi prontamente dal finestrino. Un pronunciato odore di Vodka lo precede e, tra un carosello di classiche domande di circostanza, mette subito in chiaro le sue intenzioni: souvenir, vuole un sacco di souvenir! Il malandrino, forte della sua posizione in divisa, prima pretende i documenti di Cristiano e, successivamente, si focalizza su dollari americani, i-pod e occhiali da sole. Dopo una paziente contrattazione e facilitati dalla sua potente sbronza, liquidiamo il birbante con tre caramelle, quindi ci rimettiamo in marcia a tutto foco.
Il viaggio continua e alle 5, Cristiano, Daniele e Jack, stremati cedono la guida a Nello (il più bello), Fede e Lau che, prima di ingranare fanno un veloce pit-stop per colazione a base di cioccolata, succhini e mini-crossaint alla cioccolata. Proseguiamo a diritto fino ad arrivare alla frontiera nei pressi di Pavlodar: purtroppo i malcapitati fellaz in prima fila hanno dovuto guidare accompagnati solo dalla musica perché il resto della truppa se la dormiva pesantemente.

Arrivati alla frontiera lasciamo velocemente il Kazakhstan e ci avviciniamo cautamente al border Russo. Spaventati dalle numerose raccomandazioni verso la polizia sovietica, rimaniamo piuttosto seri e fermi al primo impatto con loro. Di contro, veniamo accolti con una simpatica gag: un ufficiale ci consegna il foglio d’ingresso per il van classificato come “Fuck Transit”, così come recita l’adesivo che abbiamo simpaticamente attaccato sopra il reale logo “Ford”.

La tensione si allenta e l’accoglienza è tutt’altro che inospitale: sorrisi e domande curiose è quanto di più pericoloso troviamo. Una veloce sbirciatina nel Transit accompagnata dalla tradizionale spiegazione di Jacopo sulla provenienza e utilizzo del tabacco piuttosto che dei cicchini, impiegano non più di 40 minuti. In men che non si dica siamo nella parte Sud-Est della Siberia, in Russia senza aver pagato nessun tipo di mazzette e con un augurio di buon auspicio. Veloce sosta ai primi bagni pubblici vicino al border che sono tutto un programma e ci rimettiamo in marcia.


Continuiamo a guidare per un paio d’ore: il paesaggio che ci accompagna è piuttosto pianeggiante, sebbene cominciamo ad intravedere le prime betulle. Verso le 14 decidiamo di fermarci per una pastaccia allo sgombro in un campo a lato della strada. Nonostante il posto sia una perfetta location, le erbacce e le varie bottiglie di birra e vodka che lo ricoprono non sono le caratteristiche proprie di un locus amoenus quindi Cristiano, per salvare le ruote di Ariostone, si cimenta nella più sfrenata raccolta vetri finendo col tagliarsi un pochino. Dopo due ore, una grande abbuffata e parecchie cipolline all’aceto balsamico, riprendiamo il via questa volta con Fede alla guida e un abbiocchino generale come pochi se ne erano visti finora.

La strada si rivela molto buona e la nostra destinazione, Barnaul, sembra esser sempre più vicina. Fede ed Ariostone sfrecciano e sgommano come se non ci fosse un domani e alle 8 e 30 entriamo a Barnaul. Fin da subito lo stile architettonico sovietico si fa notare: grandi palazzi a forma di cubo e di colore grigio non lasciano troppo spazio alla fantasia, come le grandi strade a quattro corsie semi-vuote.
Ormai siamo esperti del cirillico e dopo tre cartelli riusciamo ad individuare la didascalia della parola centro. È fatta, pensiamo, e soddisfatti dell’arrivo ad un’ora non troppo tarda, ci mettiamo alla ricerca della sistemazione più economica in città. Cominciamo dall’hotel Barnaul, classe troppo alta per il nostro budget ma ottimo punto di partenza vista la mancanza di guida e internet. Una veloce consultazione ci frutta tre papabili nomi di hotel, due nuove followers e una pupa mancata per Jack, ahinoi! Li proviamo tutti e, dopo due tentativi mancati, Fede dall’accento verofalso francese e Daniele dal navigatore affidabile ci conducono in un vicolo scuro con la strada di fango. Siamo persi! Lucia e Daniele nel cercare info, si imbattono in due ragazzi che, seppur diffidenti all’ inizio, dopo aver capito la situazione montano nel van per scortarci fino al fatidico ostello. La ricerca ci fa sbagliare strada due volte, imboccare le rotaie di un tram, vedere le entrate secondarie delle abitazioni, per poi scoprire che dove sarebbe dovuto esser l’ostello ora c’è una farmacia.
Sono oramai le 23 e ci ritroviamo piuttosto sconsolati di fronte alla statua di Lenin nella piazza principale quando all’improvviso una voce Italiana ci chiama da lontano.
Sono Marta, Luca, Juan e Cecilia, due coppie, una italiana e una spagnola rispettivamente, radicate in Barnaul da circa quattro anni. Dopo due chiacchiere introduttive, gli spieghiamo la nostra situazione e loro, senza esitazione, ci propongono di passare la notte in un appartamento di proprietà della parrocchia alla quale appartengono, a patto che riusciamo a liberarlo entro le 8e30 del mattino. Accettiamo e proponiamo ai quattro una birretta fuori, alla quale replicano con un invito a casa della coppia italiana: per la seconda volta, accettiamo. Mentre Marco e Daniele vanno con Luca a comprare qualcosa per la cena, noi andiamo a casa con Marta, in compagnia di Cecilia e Juan. Da subito scopriamo che hanno una famiglia piuttosto numerosa (5 figli), ma mai come Cecilia e Juan, ben 8 figli di cui uno in arrivo. Nel capire cosa ci facciano due famiglie così numerose a Barnaul, scopriamo che entrambe le coppie appartengono al cammino neocatecumenale e che quattro anni fa hanno scelto di accettare la missione propostagli, ovvero trasferirsi stabilmente a Barnaul.
Di fronte alla loro storia rimaniamo piuttosto attoniti ma, incuriositi, continuiamo ad indagare: vogliamo capire cosa ha spinto queste coppie ha fare una scelta così radicale e coraggiosa. Marta ci spiega come è entrata in contatto con la chiesa e come in poco tempo si sia legata fortemente a questo cammino di fede. Inoltre ci espone i principi fondamentali del cammino neocatecumenale e di come questi siano alla base della loro vita quotidiana. La loro storia inizia da un ritrovo avvenuto a Porto San Giorgio, dove molte famiglie provenienti da vari paesi, si sono ritrovate per prendere parte ad un sorteggio. Il sorteggio avrebbe deciso le destinazioni delle varie famiglie, sebbene non tutte sarebbero state selezionate. Tra 300 famiglie, 150 ne erano state richieste: entrambe le coppie sono state sorteggiate per Barnaul. A questa “chiamata” ogni famiglia è libera di accettare o rifiutare. Loro hanno deciso di accettare, lasciando il loro lavoro e le loro rispettive famiglie per la Siberia. Lo scopo di questa missione è quello di aiutare il sacerdote in loco a diffondere il messaggio di fede. Il racconto si interrompe grazie all’entrata trionfale di Marco e Daniele carichi di panini giganteschi ripieni di carne, mayonnaise, patate, insalata, cetrioli e l’immancabile cochino. A questo punto il tema della conversazione cambia di netto e passiamo le due ore successive ad ascoltare esperienze di vita vissuta in un paese ancora fortemente influenzato dalla mentalità Sovietica. Il tempo vola e in men che non si dica si fanno le 3 del mattino. Un paio di foto e poi via a nanna nella nostra sistemazione provvisoria. Abbiamo quattro ore per riposare, ma in questo momento ci sembra tutto ciò di cui possiamo aver bisogno.


E’ molto difficile per noi impersonificarci nella loro decisione. E’ senza dubbio un salto nel vuoto dettato da una convinzione ben radicata. Per quanto ci riguarda non possiamo che ringraziarli per la loro immensa generosità e augurargli buona fortuna per la loro missione.

DAY 32 – FROM ASTANA TO PAVLODAR

Gli accordi presi con la signora della reception ci obbligano ad un risveglio affrettato verso le ore 8. Sospinti dai ripetuti “toc-toc”, riusciamo a scendere le scale dell’ Astana Hotel con solo mezz’ora di ritardo e entriamo nell’atrio della stazione dei treni, da dove non usciremo prima dell’una di pomeriggio. Decidiamo infatti di sfruttare quel poco segnale wi-fi disponibile per un doveroso update del nostro blog, non prima però di concederci una colazione a base di Pane e Benuta, occupando ben due tavoli del self-service e avendone pure pieno diritto, dato l’acquisto di un singolo caffé da condividere in 7. Jack e Fede, non potendo non godere del più classico dei cicchini, quello post caffè, si siedono a ridosso dei binari per concedersi al loro vizietto. Improvvisamente spunta alle loro spalle un poliziotto che si impossessa dei loro passaporti per un controllo e li incita a seguirlo nell’ufficio lì accanto. Qui, viene loro spiegato che fumare è ammesso solo nelle aree prestabilite (a meno di 2 metri dalla fatidica panca) e che devono così pagare una cospicua multa, che sia ufficiale o sotto forma di mazzetta è a discrezione dei malcapitati. Il consueto “pa rusky”, il classico “no money” e una chiamata all’amico poliziotto conosciuto il giorno prima convincono fortunatamente l’ufficiale a restituire loro i documenti e a lasciarli andare: scampata anche questa! A lavoro compiuto, ci infiliamo dentro Ariosto per dirigerci verso il Khan Shatyr, piuttosto curiosi di scoprire finalmente cosa si nasconda al suo interno e ancora un po’ incazzati dopo che ci hanno sbattuto le porte in faccia la sera prima.

La gigantesca Gher alla fine non è nient’altro che un centro commerciale (o meglio un “mall”) nel più classico stile occidentale, dove si trovano gli stessi negozi e le stesse catene che ben conosciamo noi italiani. Solo la forma conica del tetto merita qualche scatto e la nostra amara delusione è leggermente alleviata dalla vista di un negozio aretino: Gruppo Graziella! Saliti al secondo piano scorgiamo in lontananza un Burger King e un KFC e ci viene subito in mente che abbiamo una discreta fame. Dopo una continua scorpacciata di prodotti tipici, un po’ di junk food ce lo meritiamo proprio!  Cristiano e Jacopo prediligono il secchietto di succulente alette di pollo, Fede, Dani, Laura e Lucy si concedono un Whopper gigante, mentre Nello, non trovandosi del tutto d’accordo con le nostre scelte, ripiega su una scialba zuppa acquistata al locale accanto. Finito il pranzetto, dopo avere fatto su e giù dal primo al quinto piano, scopriamo che all’interno non esiste il tanto millantato minigolf, aggiungendo così un altro tassello alla nostra frustrazione.

Non ci perdiamo d’animo e, convinti da una rapida lettura del capitolo su Astana della Lonely Planet, ci allontaniamo dalla pseudo-yurta gigante e sfrecciamo verso l’Oceanario, a quanto scritto il più pescoso dell’Asia Centrale e dotato di un tunnel lungo 70 metri che attraversa l’immensa vasca degli squali. Aspettandoci un ingresso paragonabile a quello dell’Acquario di Genova, ci troviamo un po’ spiazzati approcciando un edificio circolare, nel cui viale d’accesso si trovano giochi retrò per bambini e attrazioni per allocchi. Una volta entrati, la situazione certo non migliora: le indicazioni per l’Oceanario sono nascoste in un delirio di accessori e stand super trash di cui non capiamo assolutamente la funzione e lo scopo. Una gentile ragazza, riconoscendo la voglia di tuffarci nel mondo subacqueo stampata sui nostri spaesati volti, ci viene incontro e ci accompagna prima all’ingresso, poi alla cassa per l’acquisto del ticket. Il primo scorcio d’acquario non ci convince per niente e decidiamo all’unisono che il prezzo del biglietto è troppo elevato per un branco di siluri in botta da radiazioni (o almeno questo è quello che pensiamo si nasconda all’interno). Non sapendo che fare, passeggiamo senza meta nello strano edificio, forse spinti dall’intenzione di scoprire cosa cavolo ci facciano così tante robe inutili raccolte in un unico luogo. Dopo una foto ai piedi di un’improvvisata Statua della Libertà, scappiamo via da quel posto perchè proprio “non ci sta mai”, a partire dai bagni differenziati in “traditional” e “european” style!

Tra l’uscita e Ariostione ci imbattiamo però in una coppia di ragazzetti che, conducendo agilmente una strana bicicletta lungo un percorso a tappe, ci chiedono se vogliamo scommettere 300 Tenghe su uno di noi in grado di guidare il ciclo fino all’ultima linea. La distanza sembra tuttaltro che impossibile e il premio di 3000 Tenghe in caso di successo ci fanno cadere in pieno nel loro tranello: la bici difatti è a comandi invertiti e girando il manubrio verso destra si svolta a sinistra e viceversa. Cristiano e Marco partono molto convinti ma, tra le risate compiaciute dei due ragazzini e quelle meno convinte degli altri Fellaz, mettono un piede a terra dopo nemmeno 15 cm. Alla fine i due tentativi ci sono costati 3€, forse valeva la pena almeno provarci!

Avendo ancora un po’ di tempo a disposizione prima della partenza alla volta della Russia, decidiamo di andare a fare un salto al Palazzo della Pace e Riconciliazione, una piramide di vetro specchiato alta all’incirca una trentina di metri e progettata dall’archistar Norman Foster. L’entrata però è proibita e dobbiamo accontentarci di un breve giro attorno, cosa che il tempo grigio e nuvoloso rende ancora più penosa.

Le uniche cose di cui godiamo sono uno spettacolare panorama della città e un caffettino Caffè River che Jack e Fede preparano nonostante la pioggia, al sicuro sotto l’ombrello trasparente da “not-so-straight” acquistato da Marco all’inizio del viaggio.

Riprendiamo il cammino poco dopo, convinti di guidare almeno fino a Pavlodar, circa 50 Km dal confine russo. Lucia è incaricata di domare Ariostone per la prima tratta e ci porta sani e assonnati fino ad un ristorantino per camionisti, nel quale veniamo accolti con una scrosciata di risate delle commesse che, forse, non avevano mai visto degli italiani barbuti così fighi nel loro locale. Cena a base di zuppa e tagliolini in brodo (tranne per Fede che, colto da improvviso malessere da frittura, si concede solamente un Chai) svaccati su un tappeto, osservando allibiti l’interesse dei kazaki per un thriller americano di serie C, doppiato sì in kazako ma con ancora l’audio originale di sottofondo. Verso mezzanotte Cristiano riprende la guida: dai che ce la si fa!

DAY 31 – FROM BALQASH TO ASTANA

Il solito “tatattaratata” della Nokia  disturba il nostro sonno alle 7, la trasformazione in caravan ha regalato una dormita breve ma intensa. Il sole ci mostra che il parcheggio è dotato di numerosi servizi tra cui l’immancabile e comoda latrina con porta che non si chiude, un cane da guardia che non abbaia e una custode a vegliare su di noi per tutta la notte (..e non una prostituta da 300 Tenghe come ieri ci ha detto gasato Jacopo prima di andare a letto!). Usciamo dal cancello con Dani alla guida, facciamo una pausa al distributore con tanto di gara di lancio di uova e ci mettiamo sulla statale in direzione Astana.

La spensieratezza del gruppo, giustificata dalla strada dritta, l’asfalto buono e il sole che splende, viene interrotta dalla comparsa della polizia kazaka che ci ferma con lampeggianti e paletta. Questa volta la combinazione Italia-calcio-spaghetti-Celentano non da i suoi frutti: Daniele consegna la sua patente internazionale al poliziotto che gli fa cenno di scendere per seguirlo verso la macchina, parcheggiata qualche metro indietro. Non si capisce molto fino a quando non torna allibito e, con la faccia dal finestrino, ci dice che dobbiamo pagare una multa di 170$ per avere tenuto spento i fari. La cosa è davvero strana, la cifra in $ sembra troppo alta e quella dei fari suona tanto come una scusa trovata sul momento. Marco scende per giocarsi tutti i consigli della lonely planet riguardo ai rapporti con la polizia, per provare a riabilitare la guida dopo le critiche sui paesi precedenti. Insistendo in italiano e in inglese (con forte accento british) per pagare la multa direttamente in banca ed avere un documento ufficiale, portano i poliziotti all’esasperazione e tornano al furgone fieri di avere evitato il primo tentativo di corruzione!  Senza altri imprevisti arriviamo alle 15 a Karaganda dove ci fermiamo in cerca di un bancomat e di un supermercato per comprare il pranzo e la spesa per i prossimi giorni. Dopo la solita breve pausa in cui svaligiamo il supermarket, saliamo su Ariosto alla volta di Astana con Laura al volante.

La strada è buona, ma il traffico aumenta sempre di più mano a mano che ci avviciniamo alla capitale, costringendoci a sfoggiare la potenza di Ariosto in umilianti sorpassi ai numerosi camion che ci troviamo davanti. Appena rientrati da un sorpasso a destra, lampeggiamo ad un camion parcheggiato pericolosamente a lato della strada dal quale, inaspettatamente, sbuca fuori una sirena rosso blu… lampeggiare alla polizia effettivamente non rientra tra i preziosi consigli della lonely planet e, in men che non si dica, ci troviamo la volante accanto a noi con ufficiale che con fare minaccioso esige i documenti del guidatore e della macchina. Il tipo inizia a parlare in kazako con tono autoritario, tentiamo anche questa volta la carta italia-simpatia ma stavolta non c’è trippa per gatti. Siamo appena passati davanti a loro 26 km/h sopra il limite di velocità consentito, Cri e la Laura vanno verso l’auto della polizia a tentare l’impossibile ma stavolta è davvero dura. Tra gesti di passaporti strappati, minacce di multa e mazzette riusciamo a cavarcela con un adesivo dei goodfellas! Trionfanti dopo la seconda vittoria consecutiva contro la municipale, entriamo ad Astana alla ricerca di un ostello. Quello della stazione, contro ogni previsione, ci conquista grazie alla presenza del wifi e il carta giusto compromesso tra puzzo di freschino e camera spaziosa. Posiamo i bagagli in fretta e ci andiamo a fare un giro di Astana by night prima di tornare in ostello per riuscire ad aggiornare il blog ormai a secco da troppo tempo.

DAY 30 – FROM ISSIK-KOL LAKE TO BALQASH

Partiamo la mattina dal lago Issyk-Köl, colazione in van e tirata fino alla frontiera Kyrgyzstan/Kazakhstan.

Ci concediamo un pranzo decisamente unto a base di shaslyk di manzo e pollo, quindi, piacevolmente appesantiti, ci prepariamo ad attraversare il border.

Alla frontiera ci dividiamo come al solito da Jack, noi a piedi e lui in pulmino a sbrigare le varie pratiche doganali. Superiamo agilmente la frontiera Kirgiza, ma, arrivati a quella kazaka, ci troviamo di fronte al delirio più assoluto. Forse perché è lunedì ci sono tantissime persone in fila, se così si può chiamare. Dobbiamo entrare in un corridoio stretto all’aperto delimitato da grate di ferro. Ci sono intere famiglie che sembra facciano il viaggio della speranza, stracariche di bustone e pacchi contenenti chissà che cosa. Accanto a noi, da un corridoio simile, vediamo scene da film: da un cancello socchiuso c’è un traffico impressionante di merce e addirittura un tizio si infila nello stretto pertugio tra la parte superiore del cancello e la grata di ferro. La gente non mostra il minimo rispetto della fila ma noi, da buoni italiani, formiamo un cordone alzando i gomiti: o siamo noi a superare la fila oppure di certo non ci sorpassa nessuno! L’unica che riesce a passare nell’intricata barriera di sederi, spalle e gomiti marchiati Fellas, è una graziosa bimbetta che, dotata di un tenero cappellino bianco, un simpatico zainetto e due ingombranti buste un po’ meno simpatiche, ci ispira una gran tenerezza. In giro ci sono diversi militari dalla stazza imponente e lo sguardo cattivo. Capiamo che non è il caso di scherzare quando vediamo i modi bruschi con cui due di loro trattano un vecchietto, probabilmente colpevole di trasportare nella sua busta merce non propriamente benvenuta. È bastata una mazzetta per far cambiare idea all’omone anche se la situazione rimane tesa vista la presenza di un inquietante militare con il passamontagna. Cinquanta metri più avanti riusciamo ad entrare nella sala controllo passaporti e ci troviamo di fronte il caos più assoluto. Ci sono quattro sportelli ma non è semplice prender posto, perché la sala è piccola e la gente sta ammucchiata di fronte, a formare delle file indefinite. Ci ritroviamo circondati da una miriade di pacchi imballati alla buona che sembra debbano essere soggetti all’approvazione del funzionario di turno. Non tutti ricevono un feedback positivo ma i proprietari dei pacchi respinti, più che scoraggiarsi, provano imperterriti a far passare i propri averi attraverso le inferriate. Il sistema è curioso: un bambino sta al di la del casottino per il controllo passaporti, prende il pacco o lo zaino non accettato e, come se niente fosse, lo custodisce in attesa che il proprietario passi a riprenderselo. Uno di questi piccoli custodi è proprio la bambina che ci aveva superato poco prima mentre eravamo in fila! Non è bello vedere queste scene ma lei sembra sentirsi totalmente a suo agio in mezzo al vociare non troppo convinto dei poliziotti e al caos generale. Le spalle spropositate che si ritrova lei e il fatto che l’intera sala sia piena di bambini-trasportabagagli ci fan pensare a del pesante lavoro minorile. Sgomitando un po’ riusciamo a posizionarci proprio dietro ad un ragazzo che mostrava con orgoglio degli occhiali da sole portati sulla nuca, come prescrive la moda kazaka. Dopo aver passato la frontiera ci sediamo all’ombra del cancello d’ingresso al Kazakhstan ad aspettare Jacopo che, come al solito, si sta smazzando l’ennesimo controllo doganale ad Ariostone. Guidiamo un botto in direzione lago Balqash, ci fermiamo verso le dieci ad un ristorante da camionisti lungo la strada perché abbiamo tutti una fame da lupi. All’ingresso ci sono due palme fosforescenti che ci spiazzano un po’, ma quando entriamo, capiamo dalle pietanze in giro per i tavoli che quello è il posto giusto per noi. Come al solito al nostro passaggio suscitiamo scalpore, ma ormai non ci facciamo quasi più caso. La comunicazione con la proprietaria è ardua anche perché i menu sono solo in kazako e lei chiaramente non parla una parola di inglese. Guardandoci intorno notiamo che questa volta i commensali sono per la maggior parte ragazzi sulla ventina che indossano la stessa tuta blu marcata Adidas. Facciamo un rapido check e troviamo Andrei, centrocampista dell’FC Kairat Almaty che ci spiega la situazione: stanno andando a giocare la decisiva partita di campionato contro il Balqash e si sono fermati alla tavola calda per rifocillarsi. Nonostante gli sia appena arrivato un fumante piatto di carne con patate, ci fa da traduttore consigliandoci un paio di portate giuste. Dopo una spietata contrattazione strappiamo una cena di eccezione per degli ottimi 47$. Foto di gruppo con i calciatori e mangiata memorabile.

Ripartiamo dopo aver concimato lo spazio dietro ad una casetta di legno abbandonata proprio accanto al ristorante, in compagnia di un branco di cammelli. Alla guida Fede “The Driver” Costi che sviaggia fino alle quattro e mezzo. Sfiancati tiriamo il freno a mano in prossimità di un parcheggio per tir (ci sono tornati utili piu volte, nota di merito per Nazarbaev) e per la prima volta proviamo la sistemazione “tuttinvan”: sedile del guidatore per Laura, postazione del navigatore vinta da Cristiano, in seconda e terza fila Daniele e Jacopo si godono i sedili. E gli altri tre fellas dove si mettono!? Gli zaini in terra fungono da comodo materasso (gli scettici chiedano a Lucia e Marco) regalandoci due posti letto, mentre la versatilità del divisorio libero dagli zaini assicura il terzo soffice lettino a Fede. Neanche il tempo di metterci giu che cadiamo tutti in un sonno profondo.

DAY 29 – FROM AK-TAL TO ISSIK-KOL LAKE

Vento e pioggia non ci hanno dato pace per tutta la notte, ma il nostro accampamento ha retto bene. La vallata è ancora completamente buia e i monti, che circondano maestosi il nostro accampamento, sembrano suggerirci di rimanere a letto. Nonostante questo, la mattina ci svegliamo alle 5.15.

Marco, che se l’era dormita in van per riprendersi da un po’ di spossatezza (intestinale) da la sveglia a tutti come il migliore dei galletti. Mentre fiumi di Benuta (ottima crema spalmabile bigusto comprata ieri) allietano la nostra colazione, qualche Fellas smonta le tende e qualcun altro tira giù il telo antipioggia improvvisato ieri. Questo è senza dubbio il posto più spettacolare dove ci siamo accampati finora ma la Dea del Ritardo continua a perseguitarci, e alla fine non partiamo prima delle 7.30.

Con Lucy alla guida, non facciamo in tempo a partire che un corpulento kirgizo ci ferma, apre la portiera del guidatore e ci fa capire che gli servono tre persone. Curiosissimi, scendiamo in blocco e la vista che ci si presenta davanti è costituita da una vecchia Daihatsu Tico sopra un cric con i braccetti della sospensione anteriore palesemente andati. Quello che in realtà voleva farci capire l’omone, era la necessità di un passaggio al più vicino meccanico. Cosi senza neanche accorgercene, ci ritroviamo stretti nei sedili tra mezzo albero genealogico della famiglia Kuruzov insieme ad un bel carter sporco d’olio: figlio e nonno in seconda fila impegnati in una fantasiosa conversazione con Dani, mentre il babbo in prima fila continuava a lanciare occhiate di intesa ai suoi parenti per la sportiva guida di Lucy. Dopo due ore di interminabili sali e scendi tra le montagne kirgize, lasciamo i nostri ospiti, quasi più gasati di noi per aver ricevuto un passaggio cosi particolare.

Continuiamo a viaggiare tra strade dissestate ad alta quota fino a quando non troviamo un fiume di un azzurro intensissimo. Decidiamo di fermarci per un gustoso pranzo al sacco, aggiungendo un po’ di pomodori alla più classica insalata di scatolame avanzata ieri sera. S’avia il coccomero alla maniera che usa da queste parti e ripartiamo alla volta del lago Issyk-Köl che ci sembra sempre più un miraggio, visto che rispetto alla nostra tabella di marcia siamo in ritardo di ben due giorni. Certo, va detto che avevamo scelto il percorso via Google maps senza la benché minima idea di come effettivamente fosse la strada però un po’ di preoccupazione è d’obbligo. Proseguiamo spediti riducendo al minimo le soste, ma quando, arrivati a Naryn, vediamo una fonte, decidiamo che è il caso di fare scorta di “acqua no” (la definizione che usiamo per l’acqua a rischio cagotto). Ne approfittiamo anche per sgranchirci le gambe con due tiri al pallone insieme a un paio di bimbetti con gli occhi a mandorla. Ci sono due gruppi di bambini nei pressi del pozzo, ma ciò che ci colpisce più della mancanza di adulti, è che siano proprio loro gli addetti al trasporto delle pesanti taniche di acqua. Jack comunque fa strage di cuori facendo provare ad alcune bimbe i suoi occhiali very cool e Cri ne approfitta per scattar due foto.

Ci rimettiamo in marcia su Ariostone ed il viaggio procede tranquillo tra maestose aquile e un pungiglione che Jack si ritrova tra le nocche della mano, fortunatamente senza effetti collaterali a parte un fastidioso gonfiore risolto con un po’ di sana urina.

Ad un bivio becchiamo le ennesime macchine addobbate a festa; decidiamo di unire l’utile al dilettevole chiedendo info sulla direzione giusta da prendere e soddisfacendo pure la nostra curiosità sul perché di tante decorazioni. Non facciamo in tempo a fare le nostre domande, che veniamo circondati da una mandria di ragazzotti sovraeccitati i quali ci fanno capire di essere in attesa del matrimonio del loro amico. Probabilmente avevano iniziato i festeggiamenti in anticipo ed effettivamente uno di loro aveva in mano una bottiglia di Fanta con chissà quale liquido al suo interno. La terza macchina che sopraggiunge di li a poco infatti trasporta proprio sposo e sposa. Non sapete come fare a conquistare la donna dei vostri sogni? Chiedete un consiglio a un kirgizo: da queste parti usa ancora, specialmente nelle zone rurali, rapire quello che fino ad allora era stato soltanto il proprio amore platonico e forzarla all’altare. La procedura è la seguente: una volta adocchiata la preda, il giovine accompagnato da qualche forzuto amico rapisce l’amata, la quale viene portata a casa di lui. Quindi inizia l’opera di convincimento (che può durare da qualche ora a diversi giorni) da parte della famiglia del ragazzo, fin quando la sventurata non accetta il proprio destino. Quindi gli uomini della famiglia si presentano a casa della ragazza per ufficializzare l’accordo. La scena che ci si presenta davanti sembra invece abbastanza genuina: anche se i due sembrano troppo giovani per sposarsi, sono davvero dolci lui in un abito grigio evidentemente troppo stretto mentre lei con un classico vestito bianco da sposa, di quelli che qua in Kyrgyzstan vendono ad ogni angolo della strada. Ci spariamo delle foto di gruppo memorabili completi di una fiammante bandiera kirgiza. Un rapido saluto e qualche altro scatto alle tre macchine stracolme di gente, prima che l’orda festante se ne vada via sgommando. Per la cronaca, il fantomatico liquido nella bottiglia di Fanta era proprio aranciata… Valli a capire questi kirgizi!

Ci dirigiamo verso il secondo passo a 3000 m che ci separa dal lago Issyk-Köl, la strada è decisamente migliore, ma questa volta a rallentarci sono le vedute spettacolari che compaiono a ogni curva sin dalla vallata iniziale; il culmine lo raggiungiamo proprio al Dolon Pass, da cui si godono 360° di vette coperte da un manto verde smeraldo in cui le nuvole creano un effetto di luci e ombre  che manda in estasi Cristiano con il suo filtro polarizzatore.

Ripartiamo fiduciosi per la nostra meta, sembra che non manchi poi molto e infatti, prima che faccia buio, vediamo finalmente le rive del lago. I paesini che troviamo lungo la strada non sono nemmeno indicati sulla cartina, ma immancabilmente ognuno di loro presenta almeno un minimarket ed una serie interminabile di banchini che vendono pesce essiccato. Raggiungiamo la spiaggia e ne rimaniamo davvero delusi: le immagini poetiche che ci eravamo fissati in mente di un posto incontaminato, al quale si arriva percorrendo stradine di montagna, si scontrano con la dura realtà. Il degrado regna sovrano e, tra pezzi di carta igienica usata che rotolano in terra come balle di fieno e puzza de bestia, decidiamo di abbandonare i nostri piani di falò sulla spiaggia. La priorità è adesso trovare un posto sicuro dove poter piazzare le tende, al riparo da occhi indiscreti e dai frequenti ubriaconi che popolano la zona. Così torniamo sulla strada principale, ci allontaniamo dal centro abitato e ci infiliamo in una viuzza che punta dritto verso le sponde dell’Issyk-Köl. Dopo aver passato un paio di edifici abbandonati, ci infiliamo in una strada sterrata che termina nei pressi di due yurte popolate da tre personaggi. Un paio di Fellas vanno a chiedere se possiamo accamparci la di fronte e per tutta risposta tornano con un’ottima contro offerta: per 200 som (l’equivalente di 3 €) ci darebbero una stanza con 6 letti, vista lago. Il sudicio e il puzzo di umido sono compresi nel prezzo, quindi accettiamo senza esitazione l’offerta. Ormai siamo abili nel superare le barriere linguistiche e scopriamo che i nostri host sono in realtà tre militari decisi a sfruttare un giorno di riposo per farsi un bel plov in compagnia: quello con cui abbiamo trattato è il capitano della truppa mentre gli altri due sono soldati semplici. Il profumo della pietanza che sfrigolava nel pentolone di ghisa era davvero invitante e dopo essere andati a fare una spesa aggiuntiva di pollo, riso e carote ci aggreghiamo all’allegra plovvata.


La preoccupazione di Daniele sulla scarsezza delle porzioni svanisce rapidamente: grazie alla cottura nel pentolone bisunto, è senza dubbio il plov più pesante assaggiato finora e riesce nell’ardua impresa di mettere ko l’intera truppa. Ci trasciniamo verso i letti tra uno sbuffetto e l’altro perché domani ci aspettano altri 250 km prima di entrare in Kazakhstan: la futuristica Astana ci aspetta, riusciranno i Goodfellas ad incontrare anche qualche cacciatore nomade con la sua aquila?

DAY 28 – FROM KAZARMAN TO AK-TAL

Un sospetto good morning da sala da tè inglese sveglia la rattoppata quechua da 4 che il buon Massi ci ha lasciato in dono. È Marco che, svegliato dal più mattutino di tutti gli stimoli e dall’alzabandiera di Dani che ha sbagliato lato per le tenerezze, è già in piedi tra le tende. Preparata la colazione offriamo come di consueto una tazzina dell’insostituibile caffè river a entrambi gli anziani guardiani del passo, ormai nostri amici. Soddisfatti iniziano una serie di racconti in kirgizo che non riusciamo bene a decifrare. Il capitano fa sfoggio della sua collezione di tesserini da militare, guardia forestale e poliziotto, mentre l’altro ci racconta di un suo passato da soldato in Germania e di come oggi sfoghi la sua antipatia verso questa nazione chiedendo ai turisti tedeschi di pagare un dazio per il passaggio del fiume.


Ricomposto Ariosto, ci congediamo dal capitano che da buon ufficiale in pensione rimane in posizione fino a quando non passiamo la prima curva ed inizia lo sterrato.
La strada per Kasarman è più impervia del previsto e superato un villaggio dove intere famiglie sono al lavoro al ciglio della strada tra montagne di fiori e semi di girasole, ci ritroviamo immersi in un paesaggio montuoso incontaminato.
La strada è completamente sterrata e in alcuni punti sembra appena tracciata con la ruspa; Dani, neofita dell’offroad e ancora acerbo di partenze in salita, dopo qualche imperfezione diventa un vero esperto dello sterrato. Il percorso è davvero impegnativo, non superiamo mai i 30 all’ora a causa dei primi piccoli guadi e le vacche i tori e gli asini che ci si fermano davanti al cofano.

È incredibile il panorama che troviamo davanti ai nostri occhi, quando l’ altimetro di Cri segna i 2900 metri siamo in mezzo alle montagne e oltre a noi non c’è nessuno. Ci fermiamo nel punto più alto per fare qualche foto e lasciare a Marco la dovuta intimità per chiarire i suoi rapporti con la zuppa di cipolle della sera prima.

Scendiamo a velocità bassissima sfruttando il freno motore, il peso del pulmino a pieno carico si fa sentire e le vibrazioni e le botte continue dei sassi sotto la scocca non ci fanno stare troppo tranquilli. Le modifiche al pulmino fatte in extremis si stanno rivelando fondamentali, il sottoscocca ci ha già salvato una decina di volte il motore, l’oblò ci ha fatto sopravvivere in tutti i paesi caldi migliorando il ricircolo d’aria, mentre il pannello sandwich di acciaio che divide in due il bagagliaio ne ha raddoppiato la capacità di carico e migliorato la praticità d’uso (sotto sono organizzate tutte le provviste, i fornelli e gli utensili, sopra ci stanno gli zaini). Solo il pannello solare non fa appieno il suo dovere, mentre i primi giorni abbiamo potuto caricare tutto senza problemi, nelle ultime settimane nonostante la batteria da 20 W indichi di essere continuamente in carica non riesce a fornire energia a sufficienza per i computer e lo sfruttiamo solo per cellulari e fotocamere. Lucio Casagni sei un MATTO!!! Senza il tuo aiuto non avremmo mai potuto pimpare Ariosto a questi livelli, ci resta difficile immaginare un mezzo migliore di questo. C’è spazio a sufficienza per tutti e tutto, il motore spinge bene nonostante frizione e cambio mostrino qualche segno di affaticamento… e soprattutto la radio pompa da Dio! Durante la discesa ci fermiamo più volte per fare qualche foto con i bambini che forse intimoriti dalla barba di Cristiano, non sempre si mostrano sorridenti. La prima volta ci fermiamo per un rifornimento di acqua da una fonte montana vicino a una casa di pastori, la seconda volta sfoggiamo le tshirt de “Gli Occhi della Speranza” con quattro bimbetti spuntati fuori dal nulla, a cui alla fine riusciamo a strappare un sorriso.

Con un giorno di ritardo sulla tabella di marcia arriviamo a Kazarman dove facciamo benzina e compriamo un po’ di provviste per i prossimi giorni: qui scopriamo la pluripremiata Benuta duo, il concorrente asiatico della Nutella che sta rendendo indimenticabili i nostri snack. Continuiamo alla ricerca di un posto dove accamparci per la notte con il portellone laterale che a causa delle fortissime vibrazioni sta iniziando a cedere. Ci fermiamo per cercare una soluzione al problema; un cuscinetto della cerniera che scorre sulla guida posteriore si è allentato e la porta sembra aprirsi da un momento all’altro. Dopo un breve braistorming (qui un Massimo Amorosi avrebbe sicuramente fatto la differenza) scegliamo la soluzione più semplice e meno invasiva.. chiudere il portellone a chiave almeno fino a stasera.
Ci accampiamo 50 km dopo in un posto fantastico dove, riparati dalla strada e dal vento possiamo goderci il panorama della vallata nel completo silenzio. Cristiano e Marco (oggi ufficialmente entrato al quarto posto nella ormai nota gara al cagotto) controllano il pulmino e stringono il cuscinetto del portellone con quello che hanno a disposizione mentre gli altri cucinano e montano le tende. La convivenza va a gonfie vele e l’organizzazione migliora giorno per giorno; se ieri una semplice pioggerella ha interrotto la nostra cena, oggi Cristiano Federico e Jacopo con il telo cerato picchetti e tiranti realizzano un tetto perfetto per il nostro pic nic serale. Marco febbricitante, preferisce dormire in pulmino mentre gli altri si sistemano nelle 2 tende.

DAY 27 – FROM KYRGYZSTAN BORDER TO KAZARMAN

Nonostante i muratori stessero lavorando in punta di piedi per non svegliarci, i raggi del sole ci fanno aprire comunque gli occhi. Al piacevole e tutt’altro che traumatico risveglio, segue una colazioncina a base di Caffè River, chai, biscottini e panini al miele e alveare.

Successivamente i ragazzi, approfittando del tempo morto per lavare i piatti (cosa di cui spesso si occupano Laura e Lucia), si cimentano in quello che sanno far meglio: dare calci ad un pallone. Notando che i bambini lì presenti sprizzano gioia da tutti i pori per unirsi al gruppo, i talentuosi Fellaz li invitano a posare la zappa e unirsi agli universalmente noti “passaggi al volo”. Inaspettatamente il divertimento e il tempo si fermano quando, come in una scena di Apocalypse Now, compaiono due mezzi anfibi dell’esercito uzbeko pieni di militari con passamontagna e fucili. Anche se, a prima vista, incutevano molto timore e reverenza, in realtà ci salutano amichevolmente, liberandoci dalle catene immaginarie che ci tenevano ingessati. Dal canto loro, i bambini rimangono totalmente indifferenti, rivelando una quotidianità che fa riflettere. Il loro entusiasmo, che merita di esser premiato, e il fatto che Marco tentasse di convertirli alla fede rossonera, ci convince a prelevare dal Van due completini del Milan.


In frontiera ubeka fila tutto liscio a suon di “Uzbekistan finish! Bye Bye”, mentre l’entrata in Kyrgyzstan si rivela un’attimino più formale: sentendoci ormai sicuri e a nostro agio nelle burocrazie doganali, scherziamo e sghignazziamo a voce alta ma l’ufficiale, con toni piuttosto autoritari, ci riporta alla cruda realtà. Gli uomini Fellaz, per ripicca, riempiono il casottino di pestilenziali loffie, silenziose e letali. Il malcapitato, stordito dai nostri odori, sbriga le pratiche in tutta fretta e ci lascia andare senza troppe complicazioni. Il programma prevede di arrivare ad Osh e fermarci per un paio d’ore per prelevare moneta locale, comprare le stoviglie, fare la spesa e soprattutto permettere a Federico e Laura di acquistare il volo di ritorno. Un paio d’ore: che utopia! Dopo due banche senza circuito Mastercard e sporadiche contradditorie indicazioni, ci imbattiamo in una signorina che molto gentilmente ci disegna una mappa. O per colpa sua, o per colpa nostra, non riusciamo a decifrarla e ci ritroviamo immersi nelle vie del bazaar più delirante di tutta l’Asia Centrale.

In qualche modo riusciamo a destreggiarci e parcheggiamo Ariosto nella via centrale. A quel punto Dani e Fede, pensando di aver visto un ATM, si cimentano nell’ardua ricerca della giusta banca, senza però ottenere alcun risultato concreto se non una sudata pazzesca e un probabile indirizzo. Questa volta il nostro scetticismo è avventato: riusciamo finalmente a ritirare i maledetti Som che ci assicurano almeno un minimo potere d’acquisto. Ci dividiamo in due gruppi: Marco, Fede e Laura in un internet point; Jacopo, Lucia, Daniele e Cristiano in giro per il bazaar con missione spesa e stoviglie. Ci ritroviamo dopo un’ora con storie piuttosto divertenti. Il primo gruppo dapprima scopre che in Kyrgyzstan esistono locali con wifi destinati unicamente a video-games e porno e, successivamente, entra in contatto con l’enorme barriera linguistica. Infatti, i tre fellas hanno dovuto girare ben 10 diverse agenzie di viaggio prima di trovare una ragazza che capisse l’inglese e che li accompagnasse ad un punto internet vero e proprio. Il secondo gruppo, dopo essersi cimentato nella più ardua delle trattative con una donnina Kirgiza, torna alla base vittorioso con tutte le stoviglie mancanti, frutta, pane e verdura per la modica cifra di 30€.
Sono le 16 e ci mettiamo in viaggio in direzione Lago Issyk-Kol. Paesaggi mozzafiato tra tornanti infiniti, camion zeppi di sterpaglie, branchi di cavalli e sparute mucche. Siamo a 2350 m.

In lontananza c’è foschia, ma appena il sole fa capolino illumina dei picchi innevati che potrebbero tranquillamente essere alti il doppio della cima alla quale ci troviamo noi. Bambini vestiti con tute rattoppate e delle papaline in testa mano nella mano sul ciglio della strada. Yurte bianche che spuntano qua e la, natura verdeggiante e rigliogliosa. Però ci accorgiamo di aver completamente sbagliato strada: dovevamo andare a nord siamo andati a sud, inconsapevoli di essere nel pezzo finale della Pamir Highway, segnalatoci in lontananza dalla maestosa imponenza del picco Lenin. Abbiamo usato il nostro giorno jolly, possiamo sperare di arrivare oltre Jala-labad? Riprendiamo il cammino questa volta nella giusta direzione e improvvisamente, dopo una curva, ecco sbucare il sole e i colori sono meravigliosi.
Il Kyrgyzstan è sicuramente lo stato più freddo che abbiamo attraversato fino ad ora e siamo presi da un’implacabile voglia di zuppa di cipolle e patate. Neanche a farlo apposta, scorgiamo lungo la strada sacconi stracolmi di tuberi, quindi ci fermiamo al volo per placare le nostre voglie. Il venditore è un amabile e disponibile vecchino che si destreggia piuttosto bene in Inglese e, da subito, ci trasmette il suo entusiasmo per il nostro viaggio! Carichi come non mai, ci buttiamo nell’acquisto di 4kg di patate e 4 kg di cipolle: a questo punto l’omino, estremamente preso bene, decide di regalarci 4 agli.. ora la zuppa non potrà che esser un successo!! E’ ormai buio e riprendiamo il cammino, consci del fatto che la nostra sorte dipende da una cartina non troppo dettagliata: dopo una serie interminabile di bivi e mille indicazioni in russo, riusciamo ad imboccare la strada giusta in direzione Kazarman. Tornanti e buche non ci abbandonano mai e Ariostone, nonostante la difficoltà del percorso, conferma la sua affidabilità e sicurezza: il nostro van è proprio il più tosto. Il piano è quello di accamparci il prima possibile, ma i premurosi Kyrgyzy si raccomandano di dirigerci verso la montagna per via dei numerosi cani randagi che gironzolano nell’area. Verso le 23, scorgiamo un check-point e decidiamo di fermarci a chiedere chiarimenti riguardo la nostra posizione. Ed è qui che ci imbattiamo nel più dolce dei militari: the Captain, un affabile vecchino piuttosto rotondo in rigorosa tenura militaresca. Facendogli capire a gesti e tende disegnate su blocchetti di carta la nostra situazione, ci indica molto gentilmente uno spiazzo a fianco della sua capannina. Non ci lasciamo sfuggire l’occasione e occupiamo l’improvvisata piazzola in men che non si dica con teli, tende e fornellino. La rigorosa preparazione della fantomatica zuppa si rivela però più lunga del previsto: un narghilè sembra essere un’ottima soluzione per ammazzare il tempo. L’attesa riempe l’aria di aspettative che non vengono deluse dal tripudio di sapori cipolleschi e patatosi con cui entriamo in contatto. Purtroppo la pioggia ci coglie alla sprovvista durante la pulizia pentole e il più che fondamentale lavaggio denti, costringedoci a ritirarci nelle nostre tende sciabattando chiassosamente. Distesi nei nostri umidi saccapeli veniamo comunque sorpresi immediatamente dal sonno, rasserenati dalla vicinanza del Captain e contenti di aver raggiunto la pietra miliare dei 10000 Km!

DAY 26 – FROM SAMARCANDA TO KYRGYZSTAN BORDER

Il programma odierno prevede un gran bel pezzo di strada fino alla frontiera con il Kirghyzstan, nei pressi di Andijon, valle di Fergana. La distanza da percorrere è tanta e grava sulle nostre coscienze che cercano ogni scusa per farci dormire il più a lungo possibile e smaltire la sbornia di ieri sera. Lucia, ormai pronta alla fornicazione in senso biblico, sveglia i suoi figli adottivi verso le 7.30 con carezze e voce al miele. Massi, lamentando una secchezza di fauci come se un gregge di pecore ci avesse pascolato in libertà tutta la notte, si mette in piedi per ultimo, chiedendo immediate delucidazioni su quel che è successo. La lucidità mentale torna poco dopo, portandosi dietro un garbuglio di sentimenti, complementari come il bianco e il nero, che tingono di grigio fumo l’animo di tutti noi: Massimo è in partenza o, meglio, è costretto a rimanere a Samarcanda, mentre noi proseguiremo alla volta di Osh.
La colazione viene posticipata per dare il giusto spazio all’addio ad un caro amico. Si sprecano doverosi abbracci, lacrime e parole intente a far comprendere al nostro Meccanico che i GoodFellas saranno per sempre in 8 e che, forse, il resto del viaggio non sarà più lo stesso. Massimo ci convince a partire chiudendo il portellone di Ariosto con forza tale da non riuscire a nascondere il grosso rimpianto


Spaesati e con un sedile vuoto in più, iniziamo a chiedere indicazioni per Tashkent a chiunque sia a portata di un “Salam Halykum”. Il nostro percorso si articola infatti in due distinti tratti onde evitare il non previsto ingresso in Tajikistan, il primo per la capitale e il successivo fino ad Andijon. Ne approfittiamo per comprare 14 focacce di carne, cipolle e ignote verdure, da sgranocchiare durante il viaggio e placare i morsi della fame da colazione mancata. Per giovare però del loro eccellente gusto si deve accettare di pagare pegno in sbuffetti ripetuti e consecutivi che, come le sigarette, nuociono a te stesso e a chi ti sta intorno.
Passiamo tutto il giorno su Ariosto, alle redini del quale si alternano, tra inversioni a U e soste solo per bisogni fisiologici (sempre in posti bucolici), Cristiano, Lucy e Marco. La strada fino a Tashkent ha il solito asfalto pieno di buche, ma ci fidiamo volentieri delle voci Uzbeke che millantano un tratto ottimo dalla capitale alla valle di Fergana. Certo che strada buona, o cattiva, di cartelli se ne vedono davvero pochi a dispetto dei tanti controlli della polizia che incontriamo continuamente.
A partire dal Turkmenistan infatti, abbiamo scoperto una nuova tipologia di posto di blocco che funziona un po’ come il “Pronto Spesa” all’Esselunga. Tutti i veicoli sulla strada si devono fermare di spontanea volontà al cartello stop accanto al casottino dell’ufficiale, se fermarti o no è a discrezione della polizia.
Ovviamente in pochi hanno lasciato passare senza controllo un furgone pieno di adesivi e con targa straniera, ma non siamo mai incappati in problemi particolari, anzi! Alla incomprensibile prima domanda in Turk-Uzbo-Kyrgizo la risposta “Italia” ci ha regalato soddisfazioni incredibili come: “Ahh, Itallia! Celentano, Totò Cutugno!”, senza contare i numerosi Del Piero, Totti, Maldini e addirittura Dino Baggio, sfoderati quando siamo riusciti ad entrare in ambito calcistico.


Con Marco alla guida, verso le 9 raggiungiamo la frontiera che, purtroppo, troviamo chiusa. Quindi ci mettiamo a cercare un prato per piantare le tende e far partire una pastaccia “alla vecchia”. Troviamo il posto perfetto proprio lì vicino: è un hotel in costruzione che ha un grande gazebo di legno, illuminato e con l’acqua a disposizione. In pochi minuti i muratori che sono li a dormire ci danno il via libera e, peggio di uno sciame di cavallette, ci mettiamo a proprio agio sistemando l’essenziale per i nostri scopi. Abbiamo una fame da lupi e, quando scopriamo che oltre a Massi, sono rimaste a Samarcanda anche tutte le nostre stoviglie migliori, cala un po’ l’entusiasmo generale. Rimediamo cuocendo sugo e pasta nella stessa pentola, sfruttando i denti dei cucchiai per chi non ha più la sua forchetta. Dopo la classica combinazione Narghilè+Chai, targata Fede, e una visita per il controllo documenti da parte di un poliziotto di frontiera, all’una siamo già tutti a russare nei rispettivi sacchi a pelo.

DAY 25 – SAMARCANDA

Ci svegliamo stracarichi per una giornata intera da dedicare a Samarcanda (oh oh cavallo oh oh!), con l’intenzione di dare il massimo per Massi che se ne va.
Fatta colazione, in cinque minuti a piedi siamo al Registan, maestoso complesso di medresse, simbolo della città e principale attrazione turistica, come vediamo dall’enorme numero di persone che lo visitano. La nostra implacabile sete di cochino diaccio ci fa fermare a un bar ancor prima di fare il biglietto e, in coda, qualcuno di noi spara un aretinissimo “alò diocaro!”, che viene subito riconosciuto da Mauro Magrini, un fotografo aretino in visita in Uzbekistan e accompagnato da due ragazze coreane. Dopo le due chiacchiere di rito ne approfittiamo per farci sparare un paio di foto alla vecchia in salto.

Salutato Mauro entriamo finalmente al Registan che, con le sue tre imponenti medresse cariche di maioliche e colori pazzeschi, ci lascia senza fiato, nonostante gli invadenti preparativi per un imminente festival musicale che impediscono una visione per intero della piazza centrale, nella quale anticamente si allestiva il bazaar.


In una delle medresse troviamo una incredibile collezione di stendardi di varie nazionalità e, una volta individuato il tricolore, non resistiamo alla tentazione di innalzarlo. In questo momento fanno capolino due ragazzi, uno scozzese e una austriaca che, dopo una grassa risata per averci sgamato in posa, si gettano alla ricerca del proprio standardo. Ci piazziamo così un autoscatto da veri bomber, riuscendo ancora una volta a spazientire la donnetta a guardia della medressa, ma un rakhmat ben piazzato risolve sempre tutto!


Usciti dal Registan ci dirigamo verso la enorme moschea di Bibi-Khanym, costruita al tempo di Tamerlano che ci sorprende per le incredibili dimensioni della facciata, ben 38 metri, facendo sentire anche Dani e Fede solidali verso Massi.


Il sole è alto, lo stomaco inizia a gorgogliare e il bazaar è proprio dietro l’angolo: facciamo scorta di nan (tipica focaccia circolare), pomodori, formaggio e il solito mortadellino farlocco che farebbe schifo anche al Lidl.

Subito fuori dal bazaar c’è un parco dove, all’ombra di un paio di alberi, farciamo i nostri panini importando in Usbekistan la fine arte iraniana del picnic. Dopo il primo giro di panini Jack ha una strana reazione e, recuperate salviette e carta igienic, corre senza troppe cerimonie alla ricerca di un bagno, completando così il podio della corsa al cagotto. Al suo ritorno ci trova tutti immersi in una pennica post paninaccio e si unisce alla combriccola.

Ancora indecisi sul da farsi, torniamo verso il bazaar dove Massi va prontamente a far scorta di vodka. Qui il negoziante ci consiglia l’acquisto di due diverse tipologie di bevanda, una good e l’altra very good, con le quali celebrare l’ultima sera dei fellaz al gran completo. Eccetto la parte centrale in stile sovietico, il resto del bazaar si sviluppa in maniera piuttosto caotica. Tra una pallina di formaggio (le dimensioni sono quelle di una biglia ma al suo interno concentra la potenza di un’intera forma di pecorino sardo) e un camioncino letteralmente stracolmo di wurstel, passiamo comunque una piacevole oretta. L’ultima tappa prima dell’imbrunire è il complesso di mausolei di Shah-i-zinda che raggiungiamo attraversando un cimitero deserto dall’atmosfera surreale.
Il viale dei mausolei ci strega con il suo silenzio quasi assoluto e con gli incredibili interni delle antiche tombe monumentali. Inoltre, la luce calda del tramonto sulle maioliche turchesi crea un’aura magica  che ci spinge a fermarsi e a sbocciare la prima bottiglia.

day 25 (21)

Così, seduti sulla scalinata del mausoleo di Tamerlano, ci godiamo tutti insieme per l’ultima volta un incredibile tramonto sulle moschee di Samarcanda, rievocando le avventure fin qui vissute in un misto di felicità, malinconia, pianti e flessioni.

Ci sgocciamo il vodkino e decidiamo di andarcene a buio fatto. Arrivati al cancello scopriamo che l’ingresso prevedeva il pagamento del biglietto che noi, essendo passati dal cimitero, avevamo bellamente evitato. Il solito misto di sorrisoni, spavalderia e no ruski, convincono il guardiano della nostra innocenza e tiriamo dritto senza problemi. Lungo la via di ritorno verso il Registan apriamo la seconda bottiglia di vodka, quella “very good” che effettivamente va giù come se fosse acqua di fonte. Poco dopo incontriamo un gioviale vecchietto accompagnato dal figlio il quale, dopo un rapido botta e risposta in un improbabile inglese-russo misto a gesti, ci prende subito in simpatia. Il vecchietto è preso così bene che, dopo aver malamente mandato via il figlio, ci invita a casa sua per bersi l’ultima. Ma nella nostra mente l’obiettivo è soltanto uno: fare bisboccia con Massi. Quindi decliniamo cortesemente l’invito e salutiamo il nostro canuto amico con un ritrattone d’autore.

Otto fellaz briachelli alle porte del Registan danno subito nell’occhio e, tempo zero, veniamo circondati da un nugolo di uzbeki curiosi. Massi non si trattiene e fa il cosiddetto finocchio con il culo di Cristiano, proponendolo come campione in una sfida all’ultima vodka con un uzbeko. Fortuna vuole che lo sfidante locale, dopo aver trangugiato la restante vodka very good per darci un assaggio delle sue potenzialità, accusa inaspettatamente il colpo. Mentre i suoi amici danno la colpa alla vodka russa che, a loro dire, è più forte di quella uzbeka, noi li salutiamo con fare da bulli, anche se in fondo tiriamo un mega sospiro di sollievo (il buon cri non avrebbe avuto scampo). A questo punto la fame e la penuria di vodka ci costringono a dividerci. Cri e Massi, gasati dalla inaspettata vittoria, scelgono di partire alla ricerca di altra acqua russa, accompagnati da un ragazzetto uzbeko colpito dalla sfida. Nella mezz’ora successiva attraversano tutti i peggiori bar di Samarcanda, mentre gli altri, nel primo supermercato aperto, si improvvisano salumieri, insegnando ai commessi l’arte del panino. Stremati dalla giornata e col tasso alcolico di un camionista uzbeko, ci lanciamo in un fallimentare narghilè alla vodka+birra prima di crollare. L’amico Massi andava portato in trionfo. Sembrava impossibile ma ce l’abbiamo fatta! Tan tan tan tararà.

DAY 24 – FROM BUKHARA TO SAMARCANDA

La comodità della stanza e le poche ore di sonno ci fanno posticipare la sveglia un paio di volte, ma recuperiamo un po’ di tempo con una rapida colazione a base di biscotti e Chai, sonnecchiosamente distesi su di un letto/divano Uzbeko nel giardino interno.

Timur ci accompagna prima a ritirare i dollari (non è possibile ritirare la moneta locale) e poi in centro città. Anche per il cambio in Som se ne occupa direttamente lui stesso, sfoderando dal suo spazioso taschino destro una risma di banconote da 1000, che siamo costretti a dividerci sfruttando tutti i portafogli a nostra disposizione.
Parcheggiamo sotto le mura di Bukhara, addirittura più imponenti di quella di Khiva, che però non sono accessibili causa chiusura giornaliera dell’Ark, l’antica città reale. Fortunatamente il percorso da noi intrapreso ci permette comunque di visitare le moschee e le medresse di maggiore interesse artistico.

Il tempo di dare un’occhiata ai primi negozi e intravediamo da lontano una sagoma familiare. Un fiume di parole ci investe ancor prima di avere detto “hello”: come per giustificarsi dal fatto di avere scelto una strada meno impervia della nostra, ci racconta che anche lui è arrivato da poco a Bukhara poiché la sua macchina è stata perquisita in dogana, almeno due volte in più di Ariosto. L’incontro con Tim dura poco e ci separiamo per addentrarci nel centro storico concedendoci una sosta fotografica davanti alla Medressa del Gaukushan e al bazaar coperto. Pranzo al sacco all’ombra dei platani in piazza Lyabi-Hauz dove Daniele da fuoco alle micce e si aggiudica il secondo posto nella corsa al cagotto.
Dopo un’oretta tra acquisti vari (tra i quali spicca una traduzione in italiano del saggio ubriaco Uzbeco Nasruddin Hoggià) ci incamminiamo verso il parcheggio, avendo previsto l’arrivo a Samarcanda in serata. Sulla via del ritorno però, Massimo e Cristiano, scorgono, fra i disparati souvenir artigianali, il gadget che ogni vero cultore della peluria vorrebbe avere. Ovviamente lo acquistano e poco dopo si riuniscono al gruppo ciascuno sfoggiando una barba a dir poco voluminosa e il personale pettinino dedicato in legno. Gli altri Fellaz (compresi i finti barbuti Marco, Daniele e Jacopo) non resistono all’idea di possedere nel proprio beauty-case tale indinspensabile prodigio della tecnica, dando il via libera ad un delirio fotografico di orsetti pelosi entusiasti e sorridenti, rigorosamente in posa davanti ad Ariostone.


E’ Laura il pilota che ci guida verso Samarcanda, luogo dove nessuno è mai stato ma che ha echeggiato fin da piccoli nelle nostre orecchie per colpa o merito di Vecchioni. La strada si riempie ben presto di buche (a volte ci sorge il dubbio che in Asia Centrale esistano allevanenti di talpe da asfalto) che rallentano il nostro viaggio ma non frenano il nostro entusiasmo alla vista del cartello Samarcanda. La radio nuova suona Vecchioni meglio di David Guetta e parte un “cavallo oh oh” a squarciagola..perchè il resto della canzone non lo sa nessuno! Il coro si ammutolisce in un lampo di delusione quando Cristiano legge “Samarcanda 10 km”. Poco male, è stato solo il preludio dell’arrivo vero e proprio a finestrini spalancati e luci psichedeliche (di quel tamarro di Massi) accese, attaccando pure qualche strofa in più al monotono “cavallo”.
Da qui al centro città è un grande labirinto, la cosa che colpisce di più in questa parte del mondo, oltre alla penuria di cartelli, è come nessuno dei monumenti visibili di giorno sia illuminato durante la notte. Oltre a rendere il tutto meno scenografico, questo confonde il nostro senso di orientamento e complica la ricerca del giaciglio perfetto. Dopo una serie di strade sbagliate ed inversioni a U, con l’aiuto di un poliziotto (secondo noi bello intriso di vodka) arriviamo a Registan. Qui ci dividiamo in tre gruppi alla ricerca di un hotel da 5$ a testa lasciando il buon Daniele solo in macchina in preda alla febbre da cagotto. Laura e Massimo fanno centro per poco più del nostro budget: il posto è carino, stranamente nuovo e pulito, con parcheggio custodito e addirittura la “piscina”.
Stanchissimi non ci scoraggiamo, Cristiano si mette ai fornelli, Massimo compra 2 bottiglie di rinomato vino di Samarcanda al gusto di aceto e ci concediamo una dolcissima cenetta in famiglia. Narghilè e chai firmati Fede, tosatura a quel capellone di Cristiano con una scenetta che fa tanto Village People  e alle 3 ci fiondiamo a letto cotti come pere.

DAY 23 – FROM KHIVA TO BUKHARA

Sveglia di buon ora per la camerata Goodfellas all’ Hotel Arqanchi di Khiva, la colazione purtroppo si scopre non essere a buffet: poco male, basta richiedere le portate a manetta ad uno sconcertato Jalil, ormai nostro amicone (soprattutto di Fede).
C’è ancora tanto da vedere in questa città (per cui peraltro abbiamo già pagato il biglietto), e sappiamo di non poterci permettere di partire troppo tardi, vista la lunga strada da qui a Bukhara. Ma, nel caso non si fosse capito, difficilmente riusciamo a rispettare i nostri progetti, per cui passano due ore abbondanti, durante le quali ci dedichiamo alle più svariate mansioni: c’è chi va a scroccare la wifi al caffè della sera prima per provare a postare qualcosa sul blog, chi si dedica a un sempre gradito check meccanico ad Ariosto, e chi imbastisce un poderoso bucato di fronte all’hotel.
Visitiamo abbastanza velocemente la parte della città vecchia che il giorno prima ci eravamo persi, dedichiamo due minuti ad un discutibile museo dell’arte, e alcuni di noi si immedesimano sin troppo in una rappresentazione di una tipica scenetta domestica uzbeka, scatenando le ire della sorvegliante della Medressa, che non si lascia abbindolare da un travestimento così ben riuscito.

Il tempo stringe, e nonostante l’inerzia che sembra non volerci abbandonare, e che ci fa andare avanti a suon di pause, dopo un paio d’ore ci riteniamo soddisfatti e decidiamo di lasciare Khiva alla volta di Bukhara.
Nonostante l’eccessivo ordine e pulizia all’interno della città vecchia stonino con l’atmosfera caotica che si respira fuori dalle mura, dando una vaga idea di artificialità, Khiva ci lascia senza fiato. A colpirci non sono tanto la perfezione degli edificiinterni e i colori delle maioliche, quanto la struttura fatta di vicoletti tortuosi che si intrecciano su più livelli, di assurdi passaggi attraverso tetti, terrazzine e finestre, il tutto di uno splendido color sabbia del deserto, che richiama atmosfere magiche da “Prince of Persia”.

day 23
Decidiamo all’unanimità che non partiremo senza prima esserci gustati un altro plov, questa volta però cerchiamo un posto fuori dalla città vecchia, dove sembra che tutto sia meno turistico e più economico. Dopo un paio di giri a vuoto lungo le meravigliose mure, giungiamo ad una piazzetta nel retro del mercato, dove ci dicono ci sia un ristorantino che fa un ottimo plov. Unica pecca: il prezzo supera il nostro tipico budget da pasto, quindi ci lanciamo in una contrattazione spericolata, arte in cui oramai siamo maestri; riusciamo però a strappare solo uno sconticino di 1000 som (30 cent) per porzione, il tipo era un osso duro. C’è da dire però che quei 2 euro, il plov con le uvette li valeva tutti!


Poco dopo essere partiti scopriamo che in Uzbekistan praticamente tutti i benzinai sono chiusi, e dopo averne trovati una decina fuori servizio, comincia a prendere un pò d’ansia, ed è inevitabile ripensare al caro vecchio Iran. Chiedendo in giro, veniamo indirizzati verso una specie di piccolo alimentari che a quanto pare è anche un benzinaio al dettaglio, nel senso che la signora riempie la nostra tanica prelevando la benzina da un barile in cantina. Ci concediamo, tanto per cambiare, una pausa gelato/succhino/acqua/foto/adesivi circondati da una famiglia la cui prole aumenta a ogni scatto!


Dopo esserci tranquillizzati sul fronte benzina, concediamo a Massimo il posto di guida come ad un grande pilota nel giro d’onore dell’ultima corsa. Il percorso regala subito emozioni, la strada sembra non in direzione giusta, dovremmo andare verso est, ma è pomeriggio e basta osservare la posizione del sole per capire che ci troviamo a guidare verso nord. Non potendo sfruttare l’alto dettaglio della cartina (sulla nostra l’Uzbekistan è coperto completamente da una legenda) ci affidiamo alle indicazioni dei locali e dopo svariate inversioni a U imbocchiamo una strada sterrata che sembra portare a Rigutino (rinomata località nella provincia di Arezzo) piuttosto che a Bukhara. Colin Mc Rea non avrebbe fatto meglio, Massi si rivela il capo indiscusso dello sterrato Uzbeco lasciando intendere un pericoloso passato di sgommate per le strade della Chiana.


Sembra incredibile ma arriviamo all’asfalto (nuovo di zecca), quando a un certo punto le macchine di fronte si fermano apparentemente senza motivo. Dopo una rapida indagine scopriamo che il ponte di fronte a noi ha una sola corsia, valida sia per il treno che per le macchine, quindi dobbiamo aspettare il treno che ovviamente ha la precedenza. Come sempre l’attesa in coda si rivela un’occasione per stringere amicizie improbabili: un enorme vecchio dagli avambracci grossi come prosciutti si lancia in una serie di battute assurde sul fatto di volerci appioppare le due mogli che si porta nel suo furgoncino (se il nostro russo non si è troppo arruginito). Concludiamo come sempre attaccandogli il nostro logo sullo sportello, sicuri che lo porterà in giro fieramente per l’Uzbekistan.


Alla vista di uno scenografico ponte di corda sospeso sopra un fiume, non resistiamo alla tentazione di attraversarlo, cose del genere le avevamo viste solo nei film!


La strada verso Bukhara sembra infinita e grazie alle luci dei nostri superfaretti sul tutto, ci accorgiamo di attraversare zone desertiche che con la giusta luce sarebbero sicuramente spettacolari. Questo è il problema principale del viaggiare sempre con un po’ di ritardo e con molta fretta: le tappe vanno rispettate, anche a costo di viaggiare di notte.
Arrivati a Bukhara verso le 23:30, giriamo a vuoto per un pò finchè non ci fermiamo da un cocomeraio lungo la strada che come tutti si rivela non parlare una parola di inglese ma essere super disponibile. Come al solito ci passa un suo amico al telefone che dovrebbe aiutarci, ma in questo caso non ne caviamo nulla, compriamo quindi un melone e ce ne andiamo a caso per Bukhara. Sembra sempre di esser in periferia, non ci sono luci e per mezz’ora abbondante non riusciamo ad orientarci. Proviamo diversi hotel trovando proprietari scontrosi (forse perchè sono le 2 di notte) e prezzi troppo alti. Al terzo tentativo il prezzo è ancora altissimo, ma il portiere si offre di farci dormire a casa sua per 40 euro totali. Accettiamo al volo e ci facciamo accompagnare al nostro giaciglio, che si rivela uno stanzone strabello foderato di tappetti persiani, cuscini, e sottili materassini. Solito rituale fatto di narghilè e chai e poi tutti a letto, domani abbiamo solo mezza giornata da dedicare a Bukhara.

 

DAY 22 – FROM NUKUS TO KHIVA

Partiamo la mattina dallo squallido Motel Kafe dopo una notte un po’ insonne a causa dei letti scomodi, delle zanzare leone e del caldo esagerato. Salutiamo Edward che si fa fotografare fiero di fronte al suo camion e gli uomini si sparano le flessioni mattutine che oramai sono entrate nella routine Goodfellas.

Con Daniele alla guida si parte alla volta di Khiva; la strada non è delle migliori ma permette comunque di mantenere degli ottimi 100 km/h. Ci accorgiamo che il melone è il frutto nazionale visto che ad ogni angolo c’è una simpatica vecchietta che vende il succoso frutto. Le forme, i colori e i sapori sono dei più disparati: tondi, allungati, ovali, verdi, gialli, arancioni, più o meno dolci.

Siamo circondati dalla più aperta campagna e qua e là si vedono ciuchi da soma che trasportano un po’ di tutto. Un po’ per l’atmosfera un po’ per la stanchezza, tutti i fellaz crollano uno dopo l’altro mentre Marco racconta un episodio del blog, così come un babbo racconta la storia ai suoi figlioli, lasciando Daniele solo alla guida! Il risveglio di gruppo avviene quando siamo già sotto le splendide mura di Khiva.  Ci ritroviamo però senza un soldo e, mentre alcuni fellaz si giovano dei bagni più puliti dell’Asia centrale, Marco, Federico e Jacopo vanno alla ricerca di una banca. La ricerca non va a buon fine visto che è domenica e le banche sono chiuse; avviene  però il primo contatto con la vodka locale. Infatti, dopo aver aiutato un barbone ad aprire la sua scatoletta con il coltellino svizzero, Jack e Fede assaporano un cicchetto di liquido trasparente. Per rimpinguare le casse, decidiamo quindi di rivolgerci al mercato nero, molto florido di fronte all’entrata est della città. Dopo un po’ di contrattazioni, cambiamo 1€ con 3450 som, cambio che si è rivelato esser molto favorevole rispetto al cambio ufficiale a 3000 som. L’assurdità della moneta uzbeka è che il taglio più grande è rappresentato dalla banconota da 1000 som che equivale a 10 centesimi di euro. Le carte di credito sono molto diffuse tra gli uzbeki ma abbiamo saputo di scene da film quando per esempio si voglia andare a pagare una macchina in contanti, con l’acquirente che si presenta dal concessionario con delle valigette piene di banconote da 1000 som.
Con il portafoglio realmente stracolmo decidiamo di mangiare un boccone e ci ritorna subito in mente il vecchietto incontrato a metà strada tra il parcheggio e il bazar, che vendeva fumanti shashliky (parola russa che indica spiedino) alla modica cifra di 1500 som: non sappiamo resistere, ci sediamo e ne ordiniamo a volontà. La stanza nella quale ci fanno accomodare, tra mille onori, si rivela tanto accogliente quanto sudicia. A un lato della stanza c’è un grande tavolo di legno coperto da un telo cerato a fiorellini che funge da tovaglia.

Al lato opposto c’è un vecchio frigo di stampo sovietico, e accanto a questo un altro tavolo su cui la cuoca prepara l’impasto per gli spiedini.
Nel mentre che qualcuno è a sedere, Jack, Dani e Fede vanno a spararsi un cochino a una bancarella a fianco. La signora dal sorriso dorato vende coca cola sfusa e giustamente rivuole indietro i vuoti. Non passano cinque minuti che veniamo avvicinati da Alvaro, focoso uzbeko che, per sancire la nuova amicizia, va a comprare una bottiglia di vodka e ci fa capire che non è permesso alzarci fin quando la bottiglia non sia finita. Andiamo a chiamar gli altri Fellas e al grido di “Gorga! Gorga!” onoriamo il nostro nuovo amico. Torniamo quindi al locale degli spiedini dove Alvaro sale in cattedra, compra una nuova bottiglia di vodka e fa con noi una gran scorpacciata a base di carne, chai e cicchetti di superalcoolico.

Ci facciamo fare un conto unico, ma quando tiriamo fuori i soldi Alvaro quasi se la prende e fa di tutto per impedircelo; quando finalmente riusciamo a consegnare i soldi al gestore, lui non vuole sentire ragioni e ci elargisce ben 2000 som a testa infilandoceli elegantemente a forza nelle nostre tasche.
Ore 16: un po’ briachelli e sotto il sole cocente iniziamo finalmente la visita alla Ichon-Qala (città vecchia). All’entrata di ogni punto di interesse c’è una donna alla quale pagare il biglietto, riconoscibilissima nel suo sobrio abito lungo zebrato. Il posto è spettacolare, si è effettivamente conservato benissimo ed è tenuto altrettanto egregiamente. Il leit motif è rappresentato dalle tipiche piastrelle turchesi che rivestono gran parte degli edifici, un colore quasi ammaliante che rendono l’atmosfera davvero magica. Ci riportano alla realtà una coppia di simpatici signori Filippini, da anni ormai emigrata in Australia, che si presentano in seguito alla ormai usuale domanda di Dani ogni qual volta avvista degli asiatici: “are you Japanese?”. Lucy introduce a Jesse ed Eveline la nostra impresa e, sinceramente presi bene, ci regalano 50 inaspettati dollari sull’unghia. Super foto, baci e abbracci sanciscono il saluto ai nostri gentilissimi benefattori.


Dopo la visita al suggestivo minareto Kalta Minor, Marco, Jacopo, Cristiano, Lucia e Daniele si sacrificano per andare al pulmino a prendere i computer; abbiamo trovato l’unico ristorante della zona dotato di wi-fi e vogliamo finalmente iniziare a postare I vari post del blog his pronti fall’Iran in poi. I quattro ne approfittano anche per lavare i piatti ancora sporchi dalla visita al cratere di Darvaza e farsi una bella doccia in mezzo alla strada sfruttando l’acqua di uno dei pozzi del paese.
Sulla via del ritorno, Marco fa amicizia con due ragazzi italiani di Forlì che si uniscono al nostro tavolo proprio nel momento di autismo generale, quando cioè tutti hanno a disposizione Internet. Tutti avrebbero una voglia matta di confrontare storie, ma il blog incombe e purtroppo non riusciamo ad essere super di compagnia. Intanto Laura sfrutta fino in fondo i pregevoli bagni pubblici e regala emozioni conquistando con un inaspettato sprint il primo posto nella rincorsa al cagotto. Ci sbafiamo del buon plov, cibo nazionale uzbeko composto da riso cotto insieme a carote e pollo, ci facciamo accompagnare all’ostello dove alloggiano, caldamente raccomandato per il prezzo economico e l’ambiente cordiale. Marco e Daniele sono gli uomini scelti per la contrattazione e dopo essersi seduti al tavolo con Jalil, il gestore della guest house, riescono a strappare un prezzo d’eccezione: partendo da uno svantaggioso dopo che lui era partito da 10 $ a persona senza colazione, i nostri conquistano un ottimo 5 $ a testa in camerata con colazione inclusa, sfruttando anche il non troppo velato debole che Jalil aveva per Daniele.
Siamo davvero sfiniti e dopo un rapido chaino e narghilè durante il quale il divin Jalil scopre una passione ancora più forte per Fede e la sua barba, ci fiondiamo a letto famelici di sonno.

DAY 21 – FROM DARVAZA TO NUKUS

I raggi del sole ci accarezzano il viso mentre il calore del vicino cratere ci avvolge dolcemente regalandoci un insolito e piacevole risveglio. Colazione offerta dalla compagnia organizzatrice della gita al cratere e pronti a salpare nell jeep di quel russo matto di Andrey, per un’ultima corsa nel deserto Karakorum.

Ci dividiamo in due gruppi: nel primo 5 Fellaz carichi di tutta l’attrezzatura da camping affrontano con tranquillità dossi e curve. Qui Andrey, pimpato da musica truzza a tutto volume, ci fa capire cosa vuol dire avere il controllo del mezzo. Dal secondo gruppo poche news, ma la faccia sbalordita di Fede ci preannuncia storie mirabolanti. A quanto pare Andrey non si è risparmiato alla guida e il povero Fede stava per schizzare fuori dal cassone. Una serie di 5 alti ci fanno congedare da Andrey, dopodichè tutti su Ariostone per continuare la grande traversata. La strada si rivela essere peggiore del previsto: forse il solo definire il tragitto strada sarebbe un eufemismo! Un’ininterrotta serie di buche, dosse e dislivelli ci accompagnano per ben 300 Km e la mattina prosegue liscia con Fede alla guida che, nei limiti del possibile, cerca di mantenere una velocità di 15 Km/h. Per intervallare la monotonia salterina della strada ci concediamo una sosta di “10 minuti” per girare dei video pazzeschi del Van. Ariosto, in quanto grande star, si merita un video in tutte le location che attraversiamo, e il deserto Karakorum non fa di certo eccezione! Quindi, un Max impaziente ma divertito, si accovaccia rassegnato al ciglio della strada mentre i Fellaz girano per 3 video: addirittura nell’ultimo Jacopo e Massimo si posizionano al centro delle ruote di scorta, sul tetto. Al decimo “andiamo?” di Max, ci rimettiamo in marcia. Dopo due giorni il buon Max ha capito come funzionano i tempi GoodFellas: dieci minuti si sono tramutati in un’ora più che buona. Verso l’una ci fermiamo in una meat house o meglio una sorta di trattoria locale Turkmena specializzata in torte di carne. Il solo nome dell’edificio suscita entusiamo generale e, una volta in loco, le nostre aspettative non sono di certo deluse. La trattoria si riempie in breve tempo di autoctoni affamati che si siedono al tavolo da soli, con la famiglia, o addirittura di arraffano varie focacce come take-away. Pit-stop di un’oretta intervallato da veloci visite ai bagni Turkmeni che sono tutto un programma e il viaggio riparte.

La strada non cambia e dobbiamo essere in frontiera prima delle 16.30, ma una brevissima sosta ci motiva a pigiare sull’acceleratore, prestanto attenzione a non urtare troppo Ariostone. Infatti, a 6 Km dall’arrivo ci fermiamo ad ammirare Konye-Urgench, un complesso di minareti e mausolei risalenti al 12° secolo, di cui al giorno d’oggi ahimè non rimane altro che una serie di rovine dall’aspetto rurale. Il tempo non è molto e Max ci consiglia di non avvicinarci troppo poichè i monumenti sono troppo lontani fra loro e brulicanti di bambini che chiedono l’elemosina. Rubiamo quindi gli ultimi 5 minuti di Max per una foto epica in salto con Konye-Urgengh nello sfondo.

Quello che segue è una corsa verso la frontiera che termina con un solo feedback al governo Turkmeno: più Max per tutti! In un battibaleno ci ritroviamo nella sola e desolata frontiera Uzbeka: a quanto pare siamo gli unici turisti a disturbare il loro riposino. Tutto bene, i soldatoni pelosi e palestrati Uzbeki, dopo qualche sommario controllo, ci lasciano andare con un gran sorrisone. Alla prima occasione ci fermiamo per comprare dell’acqua, senza pensare che siamo ancora sprovvisti della valuta locale, puntiamo tutto sui dollari ma nulla da fare, ed ecco che accade l’inaspettato: si avvicina un ragazzo che ovviamente non parla inglese ma che capisce la situazione, e senza pensarci due volte, ci regala dei soldi! L’Uzbekistan prende proprio bene!

La tabella di marcia prevede uno stop a Nukus, ma noi Fellaz oggi ci sentiamo più tosti che mai e decidiamo di spingerci oltre.. Proseguiamo! A 50 Km da Nukus Jack scorge in lontananza una fortezza arroccata in cima ad una collina. Come un matto prende la prima svolta a destra e punta dritto verso la collina. Arriviamo quasi sgommando, saltiamo giù da Ariostone ed ecco che inizia la corsa verso la vetta. Ci attende un panorama mozzafiato: dalla fortezza possiamo scorgere il Turkmenistan, il fiume Amu-Darya che taglia in due il territorio Uzbeko e un tramonto che svanisce in un arcobaleno di colori.

Alla nostra discesa incontriamo un omino che, accompagnato dalla famiglia, ci coinvolge in un’assurda danza truzza a ritmo di un moderno remix del sempre verde Totò Cutugno. Dopo un po’ di balli scatenati, ci facciamo convincere dalla proposta di una cena di pesce per l’equivalente di 5€ in un motel lì vicino. Scopriremo poi essere il suo!!! Il motel è in realtà una piccola stanza con quattro tavolini e una televisione, sintonizzata sul classico telefilm Uzbeko. L’atmosfera è surreale: le tovaglie a fiorellini non si sposano bene con l’ambiente spartano da camionisti. Nell’aria aleggio il tipico odore dolciastro di aceto e cipolle e, dopo vari tentativi andati a vuoto, per via della totale incompatibilità linguistica, ci ritroviamo a dovere ordinare la cena al telefono. Un solo cliente: un camionista russo dall’improbabile faccia matupita, già a tre quarti della sua personale bottiglia di vodka. Seguendo il suo esempio, stappiamo la prima di una lunga serie di bottiglie, diventando subito best friend forever con Edward. Arriva la cena: tre chili di trancio di pesce, probabilmente pesce siluro, tanto fritti quanto buoni, rimangono sul piatto per circa 15 secondi. La serata prosegue fra brindisini e foto di gruppo e alla fine ci scoliamo quattro bottiglie di vodka di fronte alle faccie incredule dei camionisti filo-russi. La conversazione con Edward procede tutta la sera, secondo la più tradizionale delle situazioni: Fellaz no ruski, Edward no english.

Siamo presi bene e il tasso alcolemico non consente a Daniele di riprendere la guida: optiamo quindi per le squallide ma economiche stanze del motel. Contrattatando loscamente con la nostra interprete telefonica (neanche stessimo trattando merce di contrabbando) riusciamo anche a conquistare l’accesso alla doccia: quello che non sapevamo è che nel prezzo fosse incluso un guardone oltre il vetro! Andiamo a letto alticci e sconcertati per l’accaduto, ma impazienti di scoprire la bellissima Khiva.

DAY 20 – FROM ASHGABAT TO DARVAZA

Sveglia di buon’ora al solito per non perdersi la colazione: dobbiamo accumulare più energie possibili poichè la giornata di oggi prevede un intenso viaggio di 5 ore per il deserto con destinazione Darvaza. I russi, negli anni 50, trivellando un po’ a caso alla ricerca di giacimenti di gas, perforarono un terreno cedevole da cui iniziò a sprigionarsi una quantità esagerata di gas. Provarono a esaurire il flusso selvaggio incendiandolo, ottendendo come unico risultato un cratere che arde ormai da più di cinquanta anni. Davanti al buffet incontriamo Tim e Verena (inglese lui, crucca lei), anche loro rallisti come noi ma partiti con il più famoso Mongol Rally. Tim, che aveva già scambiato due parole con Jacopo alla frontiera, con grande curiosità si siede al nostro tavolo con un bicchiere di succo ed un panino nel piatto. E’ un tipo cicciottello dal viso discretamente britannico che inizia a snocciolare aneddoti su aneddoti partendo da esperienze delle precedenti settimane di Rally fino ad alcuni sketch della sua infanzia nel continente nero. Tra questi, meritano una menzione d’onore l’incontro con Nelson Mandela e la storia della costruzione di tutte le strade asfaltate sudafricane da parte del padre. Si presenta come meccanico, boyscout, astronauta con un curriculum da fare invidia a Bear Grills, ha con sè alcuni attrezzi da vero professionista ed ha fatto molti dei visti direttamente alle ambasciate di Instanbul e Tehran. Il loro itinerario è quasi identico al nostro e, tra una tazza di Chai e un consiglio, gli spieghiamo la stranissima legge in merito alla pulizia delle automobili. In Turkmenistan è vietato avere l’auto sporco e se si viene colti in fragrante, si rischia una multa che, dall’equivalente di 50$, può arrivare al sequestro del mezzo.
Sorpreso dalla legislatura locale, Tim decide di portare con Fede, Massimo e Marco la sua auto, insieme ad Ariosto, al lavaggio non lontano dall’hotel. Tornati all’Ak Altyn presentiamo a Max il team Inglese che ci accompagnerà per tutta la giornata e partiamo per il Bazaar di Ashgabat.
Il Bazaar è diverso da tutti i precedenti, la struttura sovietica si articola su tre livelli. Entrando da una parte che vende souvenir di tutti i tipi, accediamo all’area centrale che, sotto una grande copertura, ospita tutto il mercato alimentare. Compriamo verdure, frutta varia per pochi Manat e pranziamo con delle foccaccine ripiene di carne. Alcuni dei Fellaz vanno alla ricerca del tradizionale abito femminile Turkmeno, che si presenta come una veste lunga con tessuti dalle fantasie sgargianti ed il colletto ricamato a mano con trame geometriche. La ricerca si rivela più dura del previsto, sebbene tutte le donne lo indossino con eleganza e rigore, nessuno dei negozi del Bazaar sembra venderlo. Nonostante una padronanza del Turkmeno ancora scarsa e nessun rudimento di Russo, i quattro riescono a svelare l’arcano: l’usanza vuole che si compri la stoffa in negozio e i vestiti vengano prodotti in casa e da sarte. Al piano “-1” trovano il Sacro Graal, in ambienti vicino alle cucini ci sono le botteghe delle sarte di Ashgabat! Max ci ha visto lungo e per non subirsi un’ora di shopping con 8 italiani, un inglese ed una tedesca ci aspetta al furgone alle 2 in punto. Ovviamente le 2 in punto non esistono, come non esiste Babbo Natale, i Licantropi e i lupi mannari.. ma questo il buon Max non poteva saperlo, non avendo ancora capito con chi sta avendo a che fare. I principi del ritardo, ambasciatori della mezz’ora accademica e protettori dell’ “un attimo e arrivo subito”, si presentano al furgono insieme a Verena ben dopo le 3, felici dei loro vestiti finalmente cuciti e personalizzati. Max accusa il colpo, dopo un’ora di telefonate, giochi con le dita, una sigaretta dietro l’altra e scoperto vita morte e miracoli di Tim (che in quanto a parlantina mette a dura prova anche Marco) è effettivamente un po’ nervoso.
Dobbiamo arrivare a Darvaza prima del tramonto, la strada è tanta e sconnessa e anche guidando “come i locali” stiamo davvero a pelo con i tempi. Ci fermiamo sotto casa della guida per ritarare i Sashliky che ci ha preparato insieme alle bottiglie di acqua ghiacciate e, con la Skoda Fabia rossa di Tim al seguito, prendiamo la strada in direzione Nord. La bolla di perfezione in cui è rinchiusa Ashgabat si rompe non appena si esce dalla periferia della città, ci troviamo a guidare per una strada che per definirsi tale dovrebbe almeno avere segnaletica orizzontale, verticale e un nastro d’asfalto continuo. Le buche sono tante e di qualità e con Ariosto a pieno carico si fanno sentire, rendendo la guida molto impegnativa e il viaggio simile ad un elettrostimolazione prolungata: il primo vero e proprio tratto da rally. Kilometro dopo kilometro superiamo la diffidenza iniziale verso Max, vuoi perchè imposto dal regime, vuoi perchè lo abbiamo pagato contro voglia e perchè lo abbiamo visto come un giogo alla nostra libertà, non avevamo accolto il ragazzo Turkmeno con grande calore. Ci spiega che conviene sempre guidare nella corsia di sinistra perchè i camion vanno verso verso Nord a pieno carico e tornano a Sud scarichi, rovinando molto meno il manto stradale. Nel transit la formazione per Darvaza è schierata con un 2-6-1, con Marco alla guida, Max al posto della suocera, centrocampo schierato stretto con Massimo, Fede, la Laura, Jack e Cristiano e Daniele a chiudere in terza fila. Il tutto per riuscire a giocare a Solo guardandosi il più possibile le carte e rubando come non mai.
A seconda delle condizioni dell’asfalto Max (che capisce l’Italiano ma non lo parla) ci guida con quattro parole: atuttofoco, stocazzo, bellafica e andiamo. La strada non migliora, anzi, ma con il tempo che stringe si cerca di mantenere una media di 90 km/h per quanto possibile. Proprio mentre Jacopo cala il temutissimo “+4”, dal sedile del guidatore si sente uno scoppio fortissimo e il fumo bianco invade tutta la prima fila. Massi, che era di spalle, si spaventa come l’Elio quando vede le api e inizia a urlare preoccupato. Nel panico totale, Marco spegne il motore e tranquillizza tutti: anche stavolta Ariosto mantiene la sua fama, per lui niente di grave, una buca deve avere attivato l’airbag che è scoppiato con un gran rumore ma poche conseguenze. Tanto fumo e poco Ariosto.


Il viaggio prosegue a velocità sostenuta, con un paio di pause, una delle quali per assaggiare il latte di cammello.

Sono le 8 e siamo a Darvaza, per raggiungere il cratere lasciamo Ariosto parcheggiato, dovendo fare qualche kilometro con tutto l’occorrente per la notte a bordo di un pickup Toyota, guidato da un Russo-Turkmeno di nome Andrey. Che figata! Dato che non entriamo tutti nella cabina, sono Jack e Cri i fortunati che si fanno 7 Km nel deserto accovacciati sul cassone del pickup, con Andrey che corre come una matto.

Tra sgommate e salti, arriviamo al campo base ma il cratere ancora non si vede, nascosto da una duna. Basta fare 100 mentri però che ci si trova davanti alla bocca dell’inferno: è impressionante. Lo spettacolo aumenta al calare del sole, con il buio che si impadronisce del deserto, le fiamme sempre più intense e i fumi che insieme alla sabbia creano dei giochi di luce suggestivi.


Al campo base, con la colonna di sonora di musica dance russa scelta da Andrey, Massi ingaggia un duello di sughi con Tim, mentre Max mette alla brace il pollo che ci ha preparato. Tempo un’ora e siamo tutti a sedere sul tappeto per decretare il vincitore: Massi si aggiudica la sfida su Tim che comunque si difende con onore.


Abbiamo evitato di raccontarlo, ma nell’ultima settimana ci sono stati degli screzi tra i fellaz…Gigione il nano si è attirato le ire del gruppo per i suoi comportamenti egoisti ed è arrivato ai ferri corti con tutti. Dopo essere caduto per l’ennessima volta sugli stinchi di Cristiano abbiamo deciso che gliela avremmo fatta pagare. E quale punizione migliore se non tirarlo nel fuoco per fargli espiare i suoi peccati?
Prima del classico narghilè più chaino ci muoviamo verso il cratere per fare quello che andava fatto da tempo, scaraventiamo Gigione tra le fiamme tra le facce incredule e divertite degli altri presenti. Soddisfatti della nostra vendetta ci accucciamo sotto il cielo stellato di Darvaza.

DAY 19 – ASHGABAT

La notte trascorre insonne praticamente per tutti quanti i Fellaz. I sedili di Ariostone, nonostante lui sia il più matto in assoluto, non sono proprio il posto più adatto per una dormitina riposante. Massimo guida per le ultime ore, prima di arrestare la nostra marcia ai cancelli della frontiera Iraniana di Bajigaran, verso le 8.30 locali. Sbrighiamo le pratiche doganali abbastanza agevolmente, cosa inaspettata in quanto totalmente opposta a quanto avvenuto all’ingresso. Difatti, solamente una sommaria perquisizione dei nostri bagagli ed una piccola mazzetta all’uomo dell’agenzia sono sufficienti a concederci il nulla osta per procedere.
Fermi davanti ad una imponente raffigurazione di un sorridente Berdymukhamenov, due guardie in età di svezzamento e armate di pericolosissime borracce, ci controllano una prima volta i passaporti: i visti sono in ordine e ci indicano di proseguire verso l’edificio pericolante situato a pochi metri di distanza. Jacopo, il guidatore designato per i transiti doganali, parcheggia il Van e viene accompagnato di ufficio in ufficio per il controllo dei documenti di Ariosto. Gli altri 7 Fellaz, nel frattempo, si ritrovano in una sala d’attesa accogliente quanto un letto di un fachiro, senza idea alcuna di come comportarsi. La sala è piuttosto ampia ma gli sgabelli per sedersi si contano sulle dita, non ci sono bagni, non si può uscire e ben presto viene inondata da un’orda di donnine turkmene di ritorno da un outlet al di la del confine. Ben presto siamo circondati da scatoloni dal contenuto ignoto e tappeti dai colori variopinti.Non appena Jack si riunisce al gruppo, ci mettiamo in fila assai spaesati, circondati da una miriade di occhi curiosi. Allo sportello però veniamo rimandati indietro, spediti all’ufficio bancario lì accanto dove sborsiamo circa 600$, pari al prezzo del visto per un soggiorno di 3 giorni in Turkmenistan. Visto che la cassa GoodFellas piange dall’ingresso in Iran, Marco e Cristiano sponsorizzano il pagamento, speranzosi di veder saldato il cospicuo credito una volta ad Ashgabat (scopriremo più avanti che nemmeno in Turkmenistan esistono i Bancomat e sono aboliti i circuti Visa, Mastercard, ecc.). Otteniamo la ricevuta dell’avvenuta transizione e ci digirigiamo raggianti all’ufficiale di turno addetto al controllo visti e passaporti, il quale, molto “cortesemente” ed in perfetto Turkmeno, ci chiude lo sportello in faccia facendoci capire che è ora di pranzo.
Le fatiche della notte ci soprendono quando, affranti e perplessi, occupiamo quei pochi sgabelli rimasti liberi. L’ambiente tuttaltro che confortevole e una quantità infinita di simpaticissime mosche impediscono però anche il più piccolo dei riposini, quasi come se per l’ottenimento del visto Turkmeno sia obbligatorio uscire illesi da un’antica turtura cinese. Daniele e Federico, mostrando uno stomaco gorgogliante, si procurano un lasciapassare per rifornirsi dell’occorrente per una delle più classiche fagiolate in frontiera. Mentre sbaffiamo la succulenta pietanza notiamo come in sala d’attesa sembriamo gli unici ad avere i nervi a fior di pelle: tutte le altre persone pare abbiano azzerato le proprie funzioni vitali aspettando, silenziosi e immobili come statue di cera, la ripresa dei lavori. Un’improvvisa generale agitazione ci segnala che è ora di riprendere il nostro posto in coda e, dopo un breve controllo visivo della somiglianza tra foto sul passaporto e proprietario dello stesso, i nostri visti vengono approvati. Un ennesimo controllo e possiamo finalmente uscire all’aperto. Non possiamo ancora riprendere il cammino verso Ashgabat in quanto ci viene segnalato che manca il pagamento di un’ultima tassa sul veicolo. Jacopo pendola più volte tra noi e l’ufficio, costretto prima a tornare sui suoi passi per carenza di dollari, poi per cambiare una banconota da 20 usurata che l’ufficiale non accetta, in quanto scopriamo che in Turkmenistan vengono cambiate ad un tasso inferiore rispetto a quelle in buone condizioni. Al suo ritorno definitivo si porta con sè Max, la guida assegnataci dal governo con il visto turistico. Lo accogliamo con diffidenza e circospezione convinti ci accompagni per spiarci e riportare qualsiasi nostra conversazione agli alti organi di questo pazzo paese. I sospetti si fanno sempre più concreti nel momento in cui ci rivela di capire l’Italiano, anche se non ancora in grado di parlarlo perfettamente. Ligi comunque al senso di ospitalità, gli concediamo il sedile passeggero lato finestrino e, seguendo le sue indicazioni, ci dirigiamo verso Ashgabat.
Percorrendo le strade della capitale, il caldo diventa quasi insopportabile e molti Fellaz invocano pietà e pregano che l’hotel (già prenotato) sia dietro il prossimo angolo. Il generale malessere non ci impedisce però di sorprenderci alla vista di una deserta, bianca, impeccabile e immacolata Ashgabat. Quella che i Turkmeni chiamano anche “Città dei Sogni”, pare sia stata pensata come inno allo splendore, alla magnificienza e alla perfezione: peccato sia venuto piuttosto male.

Una volta nella fresca e accogliente hall dell’ Ak Altyn Hotel, prendiamo accordi con Max di rivederci verso le 19.30, per un breve tour della città e per una cenetta veloce a base di pietanze locali. Alcuni Fellaz decidono di ristorarsi a bordo della piscina “cloro-free”, altri (Marco e Massimo) non hanno nemmeno le forze per scendere e scelgono di schiacciare un pisolino in camera, con la promessa di raggiungere il resto del gruppo massimo fra un’oretta. Ovviamente tirano dritti fino all’ora del ritrovo, ritardando la partenza e facendo così capire a Max che la puntualità non è proprio il nostro mestiere.
La breve visita inizia con una passeggiata nel Parco dell’Indipendenza, al cui centro è situato un alto obelisco marmoreo chiamato Arco della Neutralità ed eretto per celebrare l’approvazione democratica della politica neutrale adottata da Turkmenbashi (ie. padre dei turkmeni). Il monolite, ci spiega Max, ha un diametro di 27 metri e si erge in altezza per 91, cifre significative in quanto coincidenti con il giorno e l’anno dell’indipenenza del Turkmenistan (27 Ottobre 1991).

Successivamente ci trasferiamo poco fuori dal centro per “ammirare” un monumento alquanto eccentrico dell’altrettanto eccentrico ex-presidente Niyazov. In cima ad una strana costruzione che ricorda una navetta spaziale di un film di fantascienza low-budget degli anni ’30, si trova una statua dorata del suddetto Turkmenbashi la quale, fino a pochi anni fa, era solita ruotare su se stessa seguendo il percorso del Sole. Sfortunatemente per noi non possiamo godere di questa sua particolarità, ma decidiamo comunque di salire in cima per osservare dall’alto una luminosissima, kitchissima e trashissima Ashgabat.

Da lassù scopriamo anche l’esistenza dei Ministeri dell’Amore e della Felicità che, assieme alle microspie nelle camere d’albergo e alle telecamere per strada, sanno tanto di George Orwell Una volta scesi, suppliachiamo la nostra guida di accompagnarci a cenare, nel posticino con cucina tipica del quale si era discusso tempo addietro. Contrariamente a tutto il resto, il locale è quasi totalmente al buio. Max ordina per tutti shiskebap di pollo, montone e maiale contornati da patatine fritte i quali vengono approvati dai nostri stomaci in un tripudio di entusiasmo. Finalmente possiamo concederci pure “qualche” agognata birretta fresca: i bicchieri del primo giro si esauriscono ancor prima di toccare il tavolo ed in totale ne scoliamo circa una ventina.
Verso mezzanotte rincasiamo, disfatti dalle fatiche della giornata e dalla notte in bianco del giorno prima. Non tutti i Fellaz però decidono di buttarsi tra le braccia di Morfeo: Federico e Massimo infatti non demordono e si concedono un giretto alla discoteca dell’hotel solamente per ,a quanto dicono loro, vedere “come butta in Turkmenistan”…

DAY 18 – FROM TEHERAN TO TURKMENISTAN BORDER

La mattina ci svegliamo già suddivisi in due gruppi: mentre Cristiano, Laura, Lucia, Daniele e Federico si occupano di mettere a posto casa, Jacopo e Marco offrono volontari per affiancare il nostro meccanico di fiducia Massimino nella revisione periodica di Ariostone. Il rampante pulmino si giova di un bel cambio lampadine (una per il faro anteriore, una per quello posteriore) fulminatesi poco tempo fa, una vigorosa avvitatina a tutte le viti del sottoscocca, una copiosa abboccatura dell’olio con precisione al millilitro e un importante cambio delle corde per il fissaggio delle ruote al portapacchi. Il check del pulmino dura più del previsto perché scopriamo che un dado all’interno del telaio del portapacchi si era pericolosamente spanato. Sostituire il dado non sarebbe stato possibile, quindi, facendo galoppare la fantasia e sfruttando le sue nozioni ingegneristiche, il Capo Mastro ha deciso di rifilettare il dado utilizzando una vite più grande. Un po’ di scotch per evitare fastidiose vibrazioni al bullone nuovo di zecca ed ecco che il portapacchi è nuovamente ben saldo sul tettuccio di Ariosto.
Il piano fissato ieri con Alì prevedeva di presentarsi alle 10.30 in sede, per poi partire il prima possibile visto che la strada per la frontiera con il Turkmenistan sembra essere lunga e piuttosto impervia. Saranno riusciti i nostri eroi ad arrivare in orario? A voi l’ardua sentenza, vi basti sapere che non riusciamo a lasciare l’appartamento prima delle 13. Cara vecchia puntualità è molto tempo ormai che ti manchiamo di rispetto ma dovrai continuare ad avere pazienza con noi. Carichiamo il pulmino e ci facciamo largo nel traffico di Tehran.
Dovete sapere che oggi è un giorno importante per noi: abbiamo raggiunto i mille pollicini su facebook e la cosa necessita assolutamente di un adeguato post di ringraziamento. Jacopo, il grafico del gruppo seppur mascherato sotto le false spoglie di navigatore, si mette all’opera e, nel giro di un’ora abbiamo in mano 200 nuovi adesivi water proof e 2 poster superfighi dove campeggia la cifra “1000”. Ci spostiamo all’altro Caffé River per salutare tutti gli amici di Caffè River e magari postare l’aggiornamentone, segnando così la seconda presenza alla modaiola fiera degli chador. Appena arrivati sfruttiamo il trucchetto del VPN per accedere a facebook aggirando i blocchi imposti dal governo iraniano. Jack e Massi ormai sono esperti nel settore ma tra problemi di connessione e ultime foto di rito i tempi si allungano a dismisura.

I panini che Alì ci mostra sono troppo invitanti per dire di no quindi, accantonando i soliti proclami di mangiare al volo lungo la strada, ci ritroviamo seduti davanti ad uno splendido panino al sesamo imbottito di tutto punto, con un filo di olio sopra a rendere magico il tutto. Dopo caffè e contro caffé, facciamo il giro dei saluti e come sempre veniamo sommersi dall’entusiasmo dello staff Caffé River. Mitici loro, oltre ad essere dei portenti nel preparare cocktail alla frutta, ci hanno fatto sentire davvero a casa.
Alì ci accompagna per un po’, così da mostrarci la strada migliore per uscire dall’infernale traffico di Tehran e non ci sembra vero che sia arrivato il momento dei saluti anche con la persona che, forse per prima, ci ha fatto capire cosa significhi davvero l’ospitalità iraniana. A questo punto è giusto aprire una bella parentesi: siamo partiti per questo viaggio con la convinzione che l’Iran sarebbe stato il paese più affascinante che avremmo attraversato, ma anche quello più pericoloso. Certo, eravamo esageratamente curiosi di vedere se effettivamente fosse così e per questo motivo, anche quando ci siamo resi conto che il Carnet de Passage non era più fattibile, non ci siamo persi d’animo e abbiam fatto di tutto per passarci comunque.
La nostra iniziale diffidenza è stata vinta dai sorrisi delle persone che via via abbiamo incontrato. Una delle prime domande che ci veniva posta è sempre “Cosa ne pensi dell’Iran?”. Si percepisce che la gente teneva a farci capire che loro non sono affatto un popolo ostile e fondamentalista come viene dipinto un po’ ovunque. Giornali e televisioni hanno un ruolo importante in questa cattiva reputazione che si portano dietro gli iraniani. Le colpe del governo centrale e dell’Ayatollah sono innegabili, così come non si può negare che la corruzione sia abitudine diffusa tra le alte cariche. Ma la gente comune è diversa: se proprio la dovessimo descrivere diremmo probabilmente che gli iraniani sono caratterizzati da una generosità disarmante e da una ospitalità senza pari. Basta un “Salem Haleykum”, accompagnato da un sorriso e una mano sul cuore, che anche le espressioni più corrucciate si addolciscono incuriosite. Provare per credere.
Noi non ci siamo fermati al pregiudizio. Volevamo vedere se effettivamente quello che si diceva sull’Iran fosse vero oppure no e dai nostri racconti si capisce a quale conclusione siamo arrivati…
Partiamo dunque da questo magnifico paese con un viaggio di più di 10 ore, passando da zone dell’Iran incredibili, alla volta di un “oscuro” Turkmenistan, di cui ben poco sappiamo, ma che affronteremo, di nuovo, senza pregiudizi…certo la forzata presenza di una guida sempre al nostro fianco durante il soggiorno non ci fa partire col piede giusto, ma si vedrà.

DAY 17 – TEHERAN

Alì ci consiglia di affrontare il traffico cittadino con due taxi per far riposare i nostri muscoli e quelli di Ariosto. Alle 10 siamo pronti per la partenza: l’unico punto di interesse che ci possiamo permettere di vedere causa mancanza di tempo è il Palazzo Golestan. Felici di essere solamente un’ora in ritardo rispetto ai piani, nonostante una ricca colazione, 8 docce e un torneo di uncinetto, Alì il cunctator temporeggia un po’ prima di contattare i taxi che arrivano due ore dopo. L’ormai celebre traffico di Teheran ci tiene imbottigliati per un’altra ora di puro delirio nella quale assistiamo persino ad una scazzottata tra un agente ed un biker iraniano.Arriviamo finamente al Golestan, il lussureggiante palazzo degli Sha. I 500000 Rial a persona caricano “abbestia” le nostre aspettative. Entriamo fiduciosi pagando il pacchetto completo: biglietti di ingresso per tutti e 7 gli edifici del palazzo simbolo della sfarzosità della dinastia magiara, costruito da uno Scià in stile Europeo. La prima sala è solo un assaggio di quanto i nostri soldi potessero essere stati investiti in modo migliore… Sembra un museo di Barbie iraniane con tanto di accessori e relative improbabili didascalie. Seguono visite ad altre sale che però, allo stesso modo, non valgono il prezzo del biglietto. Ciò che ci stupisce di più è la sala degli specchi dove sono raccolti i doni giunti da altre nazioni.

Usciamo dopo un paio d’ore, abbiamo solo il tempo di trangugiarci un kebap falafel giusto all’ingresso di un bazaar che prometteva di essere strainteressante, e ci mettiamo in marcia verso la sede di Caffè River dove ci attende un evento mondano.

I km da fare sono pochi, ma il famigerato traffico ci tiene intrappolati per ben un’ora nella quale tutti cadiamo in un sonno profondo. Arriviamo alla location: Alì ci accoglie con caffè, succhi di frutta e cappuccini e, tanto per rispettare fino in fondo il Tah’rof, scoliamo tutto in tempi da record mondiale. L’evento a cui siamo invitati raccoglie la crème della crème della Teheran “bene”. Quà le signorine lottano per aggiudicarsi veli a cifre equiparabili ad uno stipendio medio annuo di un operaio. Giriamo per gli stand e la nostra fisionomia italica sembra calzare a pennello con la location. Facciamo foto con stiliste provenienti da mezzo mondo… Ai Goodfellas, specialmente agli spiriti liberi, piace eccome la situazione! Alì se ne accorge ed eccolo subito caricare la mano invitando noi e le ragazze a sciogliere il ghiaccio in modo simpatico ma che alla fine non ci porta al risultato sperato… Alì, così ce le bruci tutte!!!


Le foto di rito vanno avanti fino alle 22 quando apprendiamo una notizia che fa esultare i nostri stomaci senza fondo: la madre di Mustafa, collega ed amico di Alì, ci ha invitato a cena a casa preparando manicaretti che darebbero tre piste anche allo chef Gordon.
Arriviamo all’appuntamento con puntuale ritardo ma l’accoglienza è delle migliori: grappa fatta in casa che ci attende sopra al tavolo e un indimenticabile profumo che proviene dalla piccola cucina. Dopo pochi minuti è finalmente pronto: ci accomodiamo a tavola e in poco tempo riusciamo a spazzolare tutte le pietanze. Ma la cultura iraniana non lo permette e la mamma di Mustafa fa continui upload dei piatti. Tentiamo con un colpo di reni di lucidare i piatti con tanto di scarpetta ed ormai pieni, ci viene dato il colpo di grazia con Chai e dolcini tipici.


Sazi e mezzi brilli, un taxi ci riporta al nostro appartamento per andare a dormire, non prima però di aver goduto come al solito, dei fumi orientali del nostro Narghilè…

DAY 16 – FROM ISFAHAN TO TEHERAN

Risveglio mattutino per i Fellaz: la voce del giardiniere del parco tutt’altro che dolce fa segno di levarci di torno. Noi, ancora in fase rem alle 6 di mattina, decidiamo all’unanimità di ignorarlo. Dieci minuti più tardi arrivano i rinforzi: un poliziotto piuttosto divertito dalla situazione ci invita a sloggiare e in meno di 2 minuti ci ritroviamo ognuno con il suo posto sui sedili del Transit. Data l’ora e le posizioni non troppo comode, Lucy, Fede e Jack optano per una passeggiata mattutina alla scoperta del parco, che tanto calorosamente ci ha ospitato. I 3 fellaz scoprono che non solo il parco è dotato di un sacco di attrezzi e un percorso salute da fare invidia ai migliori parchi europei, ma anche di bagni, fontane e lavandini a disposizione di tutti coloro che decidono di accamparsi. Inoltre veniamo a conoscenza che i pic-nic iraniani non hanno limiti: alle 6:30 c’è già una famiglia accanto a noi con tanto di tappeto cuscini e l’immancabile chai. Ci avviciniamo interessati al nostro vicino e facciamo amicizia immediatamente scambiando una moka di caffè River con un sacchetto stracolmo di ceci e semi di zucca. Quindi stendiamo il telo e diamo vita ad una colazione di tutto rispetto a base di caffè, chai, digestive al cioccolato rigorosamente sciolto e crackers con miele.


Alle 9 siamo tutti svegli e pronti per andare a vedere le due moschee in Imam Khomeini Square, con un Marco raggiante per aver ritrovato il telefono finito non si sa come in fondo allo scatolone delle magliette. Iniziamo con la moschea dell’Imam, definita a ragione la più bella di tutto l’Iran, dove ci perdiamo per ben due ore affascinati da mosaici, giardini ed arcate incantevoli in pieno stile persiano.

Poco prima di terminare la visita incontriamo un gruppo di italiani che, oltre ad essere stracarichi per la nostra avventura, ci danno alcune dritte sulle prossime tappe in Uzbekistan date le loro precedenti esperienze. Visitiamo anche la Moschea dello Sceicco Lotfollah che, nonostante abbia dimensioni molto inferiori, affascina per la sua bellezza estrema e e per l’aria fiabesca che si respira nella sua unica stanza.

Entusiasti e soddisfatti ci dirigiamo verso la zona dei ristoranti per placare il brontolio dei nostri stomaci arrabbiati. Per puro caso, lo sguardo di Massimo si posa su una zuppa allo zafferano e cipolla, a quanto pare tipico piatto iraniano. CI buttiamo: la stanza è scarna e completamente blu, ma dotata di un acquario niente male incassato nella parete. Insieme alla zuppa ordiniamo anche un panino con carne di pecora giusto per essere sicuri di saziarci al punto giusto.

Con le pance piene e ancora boccheggianti, ci mettiamo in viaggio alla volta di Teheran: anche questa volta lo street food iraniano non ci ha deluso!
Stranamente in anticipo, nei pressi di Qom optiamo per una breve sosta nell’autogrill più lussuoso di tutto l’Iran. Ordiniamo qualsiasi cosa e, tra i vari coni gelato e frappè, Massimo e Marco si lanciano in un presunto gelato al mais che si rivela una coppetta, sì di mais, ma con besciamella, burro e funghi caldi.. IMPERDIBILE! Di ritorno dalla sosta troviamo un sacco di curiosi che si aggirano attorno al mitico Ariosto e a cui dedichiamo il tempo necessario spiegando la nostra avventura per filo e per segno in perfetto Farsi. Una famiglia in particolare si dimostra piuttosto interessata: il padre addirittura entra in confidenza anche Laura e Lucia, sfatando così il tabù islamico della donna priva del diritto di parola in quanto utile solo per fare il sugo.
Due ore dopo, in mezzo al delirante traffico di Terhan, si avvicina strombazzando una macchina già vista: è la famiglia di prima! Senza nemmeno fermarsi ma ancora in marcia apriamo lo sportello e la bimba, allungando la mano ci regala una manciata di caramelle salutandoci animatamente. Siamo sicuri che accadrebbe lo stesso a qualsiasi iraniano appena entrato nel nostro amato paese…


Districandoci egregiamente giungiamo al locale Caffè River di Vanak Square dove ci aspetta la solita incredibile accoglienza da parte di Alì a base di cocktail di frutta e l’immancabile vero espresso italiano! A tutto ciò segue una pizzata collettiva e reportage fotografico ormai di rito al Luna Lounge: non l’avremmo mai detto ma la pizza Iraniana (il ristorante è padovano!) non è niente male. La giornata si conclude in appartamento con il classico Narghilè e chaino, concedendoci pure una sveglia ritardata per recuperare. Domani, finalmente, è in programma la visita di Tehran.


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